Una Felicita Paradossale Gilles Lipovetsky
Una Felicita Paradossale Gilles Lipovetsky
di controllare il flusso della produzione e di rendere redditizi i loro macchinari, le nuove industrie
hanno confezionato direttamente i loro prodotti, pubblicizzando il loro marchio su scala nazionale.
Per la prima volta, le imprese investono nella pubblicità enormi somme. I prodotti, avvolti in piccoli
imballaggi e distribuiti sui mercati nazionali, avranno un nome, quello attribuito dal fabbricante: la
marca. Con la fase I nascono moltissime marche celebri come la Coca Cola o la Kodak. Questa
nascita ha trasformato il rapporto fra il consumatore e il dettagliante perché ora l’acquirente non
fa più riferimento su di lui, ma solamente sulla marca, che da garanzia e qualità. C’è quindi una
trasformazione dal cliente tradizionale a quello moderno, nato anche dalla tripla invenzione di
marca, packaging e pubblicità, che acquista una firma al posto di una cosa.
I grandi magazzini
Nello stesso periodo nascono anche i primi grandi magazzini. Essi si basano su nuove politiche di
vendita aggressive e seducenti, il grande magazzino rappresenta la prima rivoluzione
commerciale moderna che inaugura l’era della distribuzione di massa. Essi si basano sulla rapida
rotazione degli stock e su una politica di prezzi bassi. L’elemento importante è diventata la
rapidità di smercio della massima quantità di prodotti ma con un margine di profitto più modesto.
La gamma dei prodotti esposti si è ampliata e grazie alla politica di vendita a buon mercato, ha
trasformato quei beni che una volta erano privilegio di élite in articoli di consumo destinati alla
borghesia. Viene innescato il processo di “democratizzazione del desiderio”, dove i grandi
magazzini vengono trasformati in castelli dei sogni. Tutto è predisposto per abbagliare, per creare
un clima di stimolo. Non vende solo prodotti ma colpisce l’immaginazione e suscita desiderio,
presenta l’acquisto come un piacere. Mentre essi lavoravano per decolpevolizzare l’atto
dell’acquisto, lo shopping e il guardare le vetrine diventavano un modo di passare il tempo. La
fase I ha inventato il consumo-distrazione dei quali siamo fedeli eredi.
3. LA SOCIETÀ DELL’IPERCONSUMO
Vogliamo più oggetti “da vivere” che da esibire, si acquista una cosa non tanto per sbandierarla
ma per soddisfazione emotiva o fisica, sensoriale o estetica, inerente a relazioni o salute, al gioco
o alla distrazione. Dalle cose non ci aspettiamo che ci classifichino agli occhi degli altri ma
piuttosto che ci permettano di essere più indipendenti, di vivere sensazioni ed esperienze, di
migliorare la nostra qualità di vita, di conservare giovinezza e salute. Il consumo “per se stessi” ha
scalzato quello “per il prossimo”. Nel momento in cui le lotte concorrenziali non sono più la chiave
dell’acquisizione dei beni, la civiltà dell’iperconsumo prende vita. L’epoca dell’ostentazione è stata
quindi sostituita dal regno dell’iper-merce deconflittualizzata e postconformista. L’apogeo delle
merci non è rappresentato dal valore differenziale ma quindi dal valore esperienzale. Oggi, il gusto
del cambiamento incessante nei consumi non conosce più limiti sociali ed è diffusa in tutti i ceti,
in secondo luogo, desideriamo le novità commerciali di per se stesse, per i vantaggi emotivi che
ci procurano. La curiosità è diventata una passione di massa e il cambiamento per il piacere di
cambiare è diventato un’esperienza volta al mettersi alla prova. In un’epoca dove le tradizioni, la
religione e la politica hanno perso un pò della loro veste d’identità, i consumi assumono sempre di
più un nuovo ruolo correlato all’identità individuale. L’Homo Consumericus cerca di dare una
risposta alla domanda: chi sono? Il consumo emotivo è un’ottica definita come marketing
sensoriale, non ci si può più accontentare della fredda funzionalità, si punta ad una sollecitazione
sensoriale ed emotiva. A differenza del marketing tradizione che voleva mettere in luce la
funzionalità dei prodotti, un certo numero di marche oggi gioca la carta del sensoriale e
dell’affettivo delle radici e della nostalgia. Alcuno negozi sollecitano i sensi con un sottofondo di
musica, profumi e scenografie. Questo marketing cerca di migliorare le qualità dei prodotti e delle
aree di vendita in modo che sollecitino i cinque sensi. Si cerca di promettere un’avventura
sensoriale ed emotiva. La fase III esprime la nuova relazione emotiva dell’individuo con i prodotti
che detengano il primato del percepito , che rappresentino i cambiamenti di significato sociale e
bensì tecnologia di autonomizzazione degli individui nei confronti delle costrizioni del gruppo. È
nel momento del trionfo della volontà di potere sulla gestione delle nostre vite che gli oggetti
tecnici che simboleggiano la potenza virile tendono a perdere il loro aspetto aggressivo. Ne sono
prova le nuove forme rotonde delle auto che valorizzano le dimensioni di abitabilità e comfort.
La medicalizzazione dei consumi
La salute diventa un obiettivo primario. La società degli iperconsumi è quella in cui le spese
sanitarie aumentano a vista d’occhio. Homo Consumericus è sempre più prossimo a diventare
Homo Sanitas: visite, farmaci trattamenti danno vita a un processo di infatuazione per la salute.
Non si consumano più farmaci, ma anche trasmissioni radiotelevisive, stampa, pagine internet. La
salute assurge a valore primario, non basta più guarire le malattie, bisogna anticipare il futuro. La
fase III si annuncia come l’era della medicalizzazione della vita e dei consumi. C’è una spirale
crescente di comportamenti preventivi. L’iperconsumo sanitario costituisce la punta estrema della
tendenza alla de-simbolizzazione che opera nella fase III: qui rimane solo la ricerca
dell’ottimizzazione della salute grazie all’auto-sorveglianza e alle pratiche tecnico scientifiche. C’è
una ri-drammatizzazione del rapporto con i consumi. In nome del culto della salute, è sempre più
necessario informarsi. L’epoca felice delle merci generica è finita: arriva il tempo dei prodotti
preventivi investiti di preoccupazioni e dubbi. Ormai la sensazione di pericolo e rischio è
onnipresente, fino ad essere percepita come minacciosa e a richiamare alla vigilanza. Nella fase
III, l’insicurezza e l’ansia quotidiana crescono proporzionalmente alla nostra potenza nel
combattere la fatalità e nell’allungare la durata della vita.
Il corpo: controllo e “delega”
Dopo la frenesia dello standing, ora cresce l’ossessione per la salute, la nostra maggiore
indipendenza nei confronti dell’apparenza sociale ha, come contropartita, l’intensificazione della
forza delle norme e della perizia medica. Il neo-consumatore non cerca più la visibilità sociale, ma
un maggiore controllo sul suo corpo grazie alle tecnologie mediche. Egli decide di farsi visitare e
di curarsi ma la sua autonomia finisce qui. Da una parte, l’efficacia della medicina dà all’uomo
maggiore potere sulla sua vita, dall’altra crea un “consumatore senza potere” che si affida a terzi.
Oggi, il corpo è considerato come una cosa da correggere, una sorta di oggetto a disposizione
del soggetto. La gente poi, vuole scegliere i propri umore, controllare i rischi emotivi con gli
psicofarmaci. Man mano che si afferma il principio di una sovranità personale sul corpo,
l’individuo delega il suo destino agli effetti di sostanze chimiche che modificano il suo stato
psicologico dall’esterno senza alcun lavoro analitico personale, contando solo sull’eliminazione
immediata dei sintomi sgradevoli. Se da una parte, l’abuso di psicofarmaci testimonia il desiderio
individualistico del controllo del corpo, dall’altra illustra un’impotenza soggettiva, con l’individuo
che rinuncia a qualunque sforzo personale arrendendosi ai prodotti chimici che agiscono su di lui,
ma senza di lui. L’individuo si trasforma in un individuo “dipendente”
Un ipermaterialismo medicale
In una società di iperconsumi, la soluzione ai nostri mali e la ricerca della felicità sono posti sotto
l’intervento tecnico, del farmaco. Questo non significa abbandono totale di approcci
psicoterapeutici, ma è giocoforza constatate che la farmacia della felicità tende a ridurre la loro
antica centralità. Ricorriamo sempre di più però, a cure mediche ed altre pillole della felicità. È il
corpo nella sua fisicità a essere ambiante curato e questa dinamica si affermerà ulteriormente in
futuro. La fase III è caratterizzata dall’iperconsumo “attivo” solo nella misura in cui è
ipermaterialista. Tutte le considerazioni che autorizzano a dare un’interpretazione della spirale dei
bisogni abbastanza lontana da quella proposta dalla sociologia della distinzione.
LA CORSA ALL’INNOVAZIONE
La tendenza alla personalizzazione dei prodotti scorre in una economia in cui l’innovazione
predomina sulla produzione. Nel corso dei due cicli precedenti la competitività delle imprese si
fondata sull’incremento della produttività del lavoro. Sui nuovi mercati diffusi a libello mondiale
non è più sufficiente una maggiore produttività. Il capitalismo è un sistema fondato sul
cambiamento dei metodi di produzione, sulla scoperta di nuovi oggetti di consumo e di nuovi
mercati. La creazione reale o fittizia di nuovi prodotti si impone come il nuovo imperativo
categorico dello sviluppo, uno dei suoi strumenti di marketing più potenti. Ormai alcune società
trans-nazionali, come la Ford, hanno budget per ricerca e sviluppo paragonabili a quelli di alcuni
paesi importanti, cinque miliardi di dollari. Poiché più un’azienda innova e mette sul mercato nuovi
prodotti, più diventa considerevole l’aumento del suo giro d’affari. Oggi, i settori in crescita sono
quelli in cui il ritmo di rinnovamento e produzione è più alto. Nella fase III l’innovazionismo ha
soppiantato il produttivismo ripetitivo del paradigma fordista.
L’inflazione delle novità
L’evoluzione dei ritmi e gli imperativi di innovazione sono impressionanti. Ogni anno vengono
proposti agli europei 20.000 nuovi prodotti di grande consumo con un tasso d’insuccesso del
90%. Questa febbre del rinnovamento ha notevolmente aumentato la domanda di denominazioni,
al pinto di scatenare una vera inflazione di nomi di marche: oggi ci sono quasi 900.000 marchi
depositati. Nell’abbigliamento, le due tradizionali collezioni annuali hanno ceduto il passo a dieci o
dodici collezioni. Zara rinnova i suoi prodotti ogni due settimane. Le industrie culturali
obbediscono alla stessa legge “frenetica” del nuovo e del deperibile. Si sottolineano spesso la
dominanza di un oligopolio di alcune major. Per esempio, quattro grandi gruppi producono l’85%
della musica venduta nel mondo. L’era della globalizzazione è meno modellata dai processi di
standardizzazione e di omogeneizzazione di quanto non lo sia dall’esplosione della diversità, dagli
imperativi di rapidità, dalla dinamica dei flussi ininterrotti. Al fine di minimizzare i rischi creati
dall’incertezza del successo e di rispondere a una domanda imprevedibile, le industrie culturali
non smettono di applicare un moltiplicatore alla loro offerta di prodotti. Le esigenze di guadagno
rapido, i potenti meccanismi promozionali hanno comportato una riduzione della durata della vita
dei prodotti culturali. L’offerta abbondante ha condotta all’accorciamento della vita delle opere,
alla rotazione accelerata degli stock, una sorta di cultura a flusso ininterrotto. Nella fase III la
cultura funge sempre di più da investimento finanziario che deve obbedire all’obbligo di
rendimento del capitale impiegato, un prodotto valido come gli altri o pressapoco.
L’economia della rapidità
Un gran numero di prodotti ha una durata di vita che non supera i due anni ma l’accelerazione
della obsolescenza dei prodotti è presente in tutti i settori. All’origine di questa escalation si
pongono il rinnovamento rapido dell’offerta così come le richiesta di consumi più emotivi e fugaci.
Al fine di stimolare il consumo, si cerca di produrre solo articoli di qualità scadente. Si tratta
solamente di sedurre grazie alla novità, di reagire prima dei concorrenti e di accelerare il lancio dei
prodotti riducendo i tempi di progettazione e inserimento sul mercato. Nell’era
dell’internazionalizzazione dell’economia la concorrenza sui costi non è più sufficiente; la
competitività richiede l’intensificazione della rapidità di reazione e creatività. Nel momento in cui
l’accorciamento dei tempi dei cicli di elaborazione, l’accelerazione dell’innovazione e la velocità
del rinnovamento dei prodotti diventano parametri di performance economica, si passa dalla
concorrenza all’iperconcorrenza. Questi processi di riduzione dei tempi non sono nuovi, stanno al
centro dell’organizzazione tayloriana dell’impresa, dove guadagnare tempo significa rapidità di
vendita. La sfida non sta più tanto nella produzione continua e di massa, quanto nell’assicurare
l’entrata più rapida dei prodotti sul mercato e rispondere alla domanda prima dei concorrenti.
Nelle economie postfordiste della fase III, il ruolo fondamentale spetta alla reattività e
all’innovazione rapida dei prodotti.
Crono-concorrenza
Il fattore tempo è diventato cruciale e per questo si impone il concetto di crono-concorrenza, con
questo processo, per giungere sul mercato più rapidamente, le imprese comunicano il prodotto
sempre più anticipatamente. La Smart è stata annunciata più di 4 anni prima del suo lancio.
Questa strategia mira a costruire notorietà del prodotto e della marca, a ledere le vendite dei
prodotti concorrenti, a generare desiderio, a favorire il livello delle vendite fin dal momento del
lancio. Allo stesso tempo, questo tipo di strategia accorciala durata di commercializzazione dei
prodotti della gamma e in consumatori attendono l’uscita del nuovo prodotto piuttosto che
comprare quello già presente sul mercato. Nel ciclo III l’iperconsumatore non consuma più solo
oggetti ma anche ciò che on è ancora materialmente concretizzato.
5) VERSO UN TURBO-CONSUMATORE
La fase III dell’economia di massa nasce nel momento in cui le famiglie raggiungono un alto grado
di comfort domestico. In Francia è solo verso la fine degli anni 70 che la vita quotidiana di tutti i
ceti sociali viene improntata alle tecnologie. Per stimolare la domanda, le industrie hanno fatto
pressione sul pluvi-comfort domestico delle famiglie. Fino a quel momento prevaleva una logica di
consumo “semi-collettivo”, fondata sul corrugamento della casa: telefono, tv, auto per nucleo
familiare. La fase III si è liberata di questa logica con un consumo sempre più incentrato sul
comfort dei singoli componenti di una stessa famiglia. Il pluri-comfort diviene la regola, questo
permette l’allentamento dei controlli familiari, una maggiore indipendenza dei giovani, sempre più
sovranità su se stessi.
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IL TURBO-CONSUMERISMO
Gli stili di consumo sono rimasti ampiamente improntati all’habitus di classe e al comfort semi-
collettivo dei nuclei familiari. È proprio questo che fa scattare la fase III, che appare come quella
che, ampliando incessantemente la gamma delle scelte personali, libera i comportamenti
individuali. La fase III rappresenta il passaggio dell’età della scelta a quella della iper-scelta, dal
mono al multi-comfort, dai consumi individualistici a quelli iper-individualistici.
I consumi iper-individualistici
Negli 70 si sviluppa il multi-comfort, cioè il passaggio da un consumo voluto della famiglia a
quello imperniato sull’individuo. Ciascuno può organizzare la sua vita privata, con i suoi ritmi,
indipendentemente dagli altri. Il multi-comfort e i nuovi oggetti elettronici della fase III hanno
comportato una escalation della individualizzazione dei ritmi di vita. I telefonini, il congelatore, il
forno a microonde consentono alle persone di costruire in modo autonomo il loro spazio-tempo. I
riflettori sono puntati sull’iperindividualizzazione dell’uso dei beni di consumo, sullo sfasamento
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dei ritmi all’interno della famiglia. La società degli iperconsumi può scrivere “A ciascuno i suoi
oggetti, a ciascuno le sue abitudini, a ciascuno il suo ritmo di vita”. Man mano che l’offerta
diventa più variata ed esotica, i menu, gli orari, i luoghi rispecchiano scelte più personali che
regole collettive. Anche il rapporto con la moda diventa più soggettivo, gli adulti acquistano ciò
che piace, ciò che gli va e non più la moda per la moda, anche se questo è un atteggiamento che
vale per gli adolescente. La fase III si contraddistingue per la crescente personalizzazione delle
abitudini quotidiane, la grande distanza che i protagonisti prendono nei confronti della classe
sociale a cui appartengono.
Il consu-viaggiatore
Man mano che la mobilità s’intensifica e gli individui hanno sempre meno tempo da dedicare alle
loro compere, vediamo che i luoghi di transito cominciano ad assomigliare a dei piccoli grandi
centri commerciali. Gli aeroporti diventano luoghi di iperconsumo, nei corridoi delle metro sono
installati negozi di alimentari, abbigliamento, fiori. Il “commercio di transito” riguarda perfino gli
ospedali. I non luoghi stanno diventando aree commerciali, piene di prodotti di base ma anche di
marca. Nelle fasi I e II i consumatori si spostavano per recarsi nei negozi, nella fase III è il
commercio che si muove e va loro incontro. Negli aeroporti il giro d’affari è superiori a quello degli
ipermercati. Si è verificata una mutazione: mentre la fase II era quella incentrata sulle prestazioni
tecniche, la fase III non smette di diversificare e moltiplicare l’offerta di servizi e viaggiatori. Il
passeggero non è più solamente colui che prende un treno, l’aereo o l’auto, è un consumatore da
attirare, occupare e distrarre. La fase III vede moltiplicarsi i servizi che non siano correlati al
viaggio: l’obiettivo a cui si mira è quello di commercializzare il tempo, dargli una struttura, un
“consumo dentro al consumo”. Treno e aereo sono mezzi di trasporto rapidi, quindi la politica è
quella del “viaggiare meglio” grazie ad una moltitudine di servizi. Le compagnie offrono servizi
numerosi. Per accaparrarsi il cliente e strapparlo alla concorrenza in un mercato deregolamentato,
sarà necessario proporre un grado sempre maggiore di comfort, servizi e distrazioni. Non si offre
più un viaggio veloce, ma si cerca di far passare rapidamente il tempo. Una politica che tende a
far dimenticare che i viaggi richiedono tempo.
I consumi a ciclo continuo
Un’evoluzione simile si verifica nell’organizzazione temporale dei consumi. Oggi i programmi
radiofonici e televisivi sono trasmessi ininterrottamente, diverse società di servizi sono operativi
24/7. Le agenzie distribuiscono le offerte su tutto l’arco dell’anno, le consegne di piatti pronti, a
qualunque ora e a domicilio, si stanno sviluppando con successo. In Europa, le norme sugli orari
di apertura stanno diventato più elastiche. Numerosi istituzioni tentano di opporsi a una città che
sia interamente destinata ai consumi, ma ciò non toglie che oggi più di un francese su due sia
favorevole all’apertura domenicale dei negozi. È in atto un processo di strutturazione di un
universo iperconsumeristico a flusso ininterrotto che funziona non stop 365 giorni all’anno. Il
capitalismo si è trasformato in un turbo-capitalismo, così siamo testimoni di un turbo-
consumerismo. La fase III sta operando al fine di dilatare l’organizzazione temporale dei consumi,
allungando gli orari e i giorni di apertura dei negozi, eliminando progressivamente i tempi vuoti o
protetti. Mentre si parla di turismo notturno, la notte diventa a pieno diritto un settore economico
a sé. Alcuni negozi cominciano i saldi il giorno X a mezzanotte. Occupando lo spazio notturno,
l’economia abolisce qualunque momento di pausa, costruisce una città aperta al consumo a
orario continuato. La società dell’iperconsumo si impegna a mantenerlo sempre più sveglio
dilatando il suo regime temporale. La logica del turbo-consumerismo si realizza perfettamente
sulle reti elettroniche grazie agli acquisti on-line. Se nel corso delle fasi I e II il cliente si è
emancipato dall’influenza del venditore, nella fase III il cyber-consumatore si libera di tutti gli
ostacoli spazio temporali poiché non è più obbligato a spostarsi sul luogo di vendita. L’internauta
può aggiornarsi in tempo reali sui prodotti e sui servizi e a tutti i diversi prezzi, prima di fare una
scelta che risponda alle sue necessità.
Un turbo-consumerismo policronico
Nello stesso momento in cui la grande maggioranza dei consumatori auspica di perdere meno
tempo possibile per gli acquisti, si moltiplicano le case rapide e i distributori automatici. La
clientela della ristorazione rapida è immensa, le industrie agro-alimentari propongono una sempre
più vasta gamma di prodotti di uso immediato, piatti e alimenti pronti. L’iperconsumatore è quindi
questo individuo frettoloso per il quale il fattore tempo è di vitale importanza per l’organizzarsi del
suo programma quotidiani. Accessibilità diretta e immediatezza si impongono come nuove
esigenze temporali. Nei luoghi di trasporto si installano distributori ultrarapidi di biglietti e schermi
che forniscono informazioni sui tempi di attesa. Tutti vogliono poter comunicare ed essere
raggiunti, vedere e comprare rapidamente, ovunque e in qualunque momento. L’epoca dei felici
momenti di pazienza, nei quali l’esperienza dell’attesa costituiva un elemento piacevole, tramonta
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a vantaggio di una cultura dell’impazienza e della soddisfazione immediata dei desideri. È il tempo
dell’attesa zero del “quel che voglio, quando voglio, dove lo voglio”, il turbo consumatore vuole
ottenere tutto e subito, non importa in che giorno o in che momento. Man mano che proliferano le
offerte e le domande in tempo reale, Homo Consumans diventa allergico alla minima attesa.
L’ordine del tempo precipitoso fa sparire la distanza e il distacco necessari al pensiero. Nuovo
modello della nostra relazione con il tempo, l’urgenza è presentata come il “meta-tempo sociale”
della fase III. È vero che l’iperconsumatore mostra in modo evidente la sua preoccupazione di fare
sempre più in fretta, è vero che non sopporta di perdere tempo e vuole disporre dell’accesso ai
prodotti, alle immagini, comunicazione a qualunque ora del giorno e della notte. Tuttavia si è
testimoni della proliferazione di desideri e comportamenti che, attraverso un orientamento verso i
piaceri sensoriali ed estetici, il benessere e le sensazioni corporee, esprimono la valorizzazione di
un temporalità lenta, qualitativa e sensistica. Lo slow food contro il fast live. Non una temporalità
uniformemente urgentista, ma un sistema composto da temporalità profondamente eterogenee. Il
regime del tempo nella società degli iperconsumi non ha alcunché di uni-dimensionale, al
contrario, è paradossale. La fase III si struttura sotto il legno di un consumatività poli-cronica. Non
bisogna perdere di vista il ruolo fondamentale che interpreta il protagonista individuale, il
“consum-attore”, adotta strategie individuali, compie scelte e giudica personalmente,
accelerando qui per liberare il suo tempo là. Guadagnare tempo non è solo un obbligo
determinato dall’esterno, è forse anche una strategia destinata a far approfittare di altri momenti
della vita. Si afferma l’imperativo di celerità e più si esprimono le considerazioni etiche, le
posizioni critiche nei confronti delle marche e di consumi irresponsabili. Il turbo-consumerismo
non deve essere tanto proposto come un ordine che toglie i soggetti dalla prima linea ma come
una dinamica che favorisce la presa di distanza dal presente e la responsabilizzazione etica del
consumatore.
L’effetto Diva
Il tipo ideale del turbo-consumatore s’impone anche perché la fase III ha profondamente
destabilizzato gli antichi modelli di classe, i codici simbolici differenziali che strutturavano le
abitudini e i gusti individuali. All’inizio della fase II, nei ceti basi domenica ancora il sentimento di
appartenenza a uno stesso mondo sociale, strutturato intorno a dei punti di riferimento e a uno
stile di vita omogenei. Vi è un insieme di abitudini e richiami all’ordine che hanno il compito di
contrastare i tentativi di valicare le frontiere di classe. In questo universo divino dall’antagonismo
tra “Loro” e “noi”, vestirsi, abitare, mangiare sono attività regolare dalle maniere di classe, da
differenze di habitus. È questa organizzazione collettiva dei consumi che ha posto fine alla fase III.
Si è verificata una mutazione: nel quadro della società d’iperconsumo non si acquista più
necessariamente cà che acquista chi è socialmente vicino. Al principio di “a ciascuno il suo
posto” si sostituisce un principio di legittimità contraria “ciascuno fa quel che gli piace”. Il
principio di autonomia è diventato la regola di orientamento nei comportamenti individuali. Il
turbo-consumerismo si contraddistingue per la sua emanaipazione dei confronti degli obblighi
simbolici di classe, cosicché il diritto a costruire il nostro modo di vivere “come vogliamo” non
incontra più alcun ostacolo se non il livello del potere d’acquisto. Nello stile di vita di oggi, più che
a classe di origine, è il denaro di cui disponiamo a fare la differenza. Il nuovo consumatore appare
un acquirente che non deve rendere conto a nessuno. Ovvio, ci sono dei casi dove le scelte sono
riallacciate alla classe ma questo è perché gli stili di vita delle classi sono sempre più condivisi.
Ciò che distingue la fase III non è l’omogeneizzazione sociale, bensì l’irrilevanza del potere
orientate dei motivi di classe, la distanza dei protagonisti dalle norme collettive e dagli habitus.
Effetto diva per rifarsi ad un film di Beinex dove un giovane impiegato, di condizioni modeste, vive
in un loft in stile barocco ed è appassionato di opera lirica e dispone di attrezzatura di
registrazione professionale.
I consumi balcanizzati
Le mode dei giovani offrono l’immagine più lampante di come i consumi si comunitarizzino.
Eccoci nell’età del consumo organizzato in associazioni. Nelle fasi precedenti la divisione in classi
costituiva i principi organizzativi dell’ambito del consumo, che si disponeva dall’alto verso il baso,
partendo da punti di riferimento comuni. Nella fase III va di pari passo con il collasso di questa
logica piramidale, a beneficio di un modello di consumo orizzontale o organizzato in associazioni.
Dopo l’età centralizzata viene l’età multipolare dell’iperconsumo, in cui le differenziazioni si
verificano secondo una molteplicità di criteri relativi all’età, alle preferenze, ai progetti di vita,
orientamento sessuale. In queste comunità si entra e si esce a piacimento attraverso una ricerca
di identità, adesione totalmente agli antipodi dell’imposizione meccanicistica dei tempi passati.
L’epoca che si annuncia stabilisce un accomunamento sostenuto dalla preoccupazione di
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forse si dimostra incapace di resistere alle tentazioni esterne e agli impulsi interiori. La fase III ha
messo in orbita un consumatore ampiamente libero da imposizione e riti collettivi ma questa
autonomia porta con sé nuove forme di asservimento: da una parte, è meno assoggettato a valori
conformisti, da un’altra, deve di più al regno monetizzato del consumo. L’individuo è si autonomo
ma è anche più che mai dipendente dall’ambio commerciale per il soddisfacimento dei suoi
bisogni. L’influenza generale del consumo sugli stili di vita e i piaceri si allarga sempre più
soprattutto perché impone meno regole sociali restrittive.
IL CONSUMO-MONDO
I consumi senza freno
Il pianeta del consumo di massa è stato costruito sbalzandosi dei comportamenti tradizionali,
facendo tramontare le vecchie culture. I grandi magazzini hanno inventato lo “shopping”come
nuovo mezzo di distrazione e creato nelle classi borghesi il bisogno irresistibile di consumare. Poi,
il celebre “five dollari a day” di Ford è pensato come possibilità per l’operaio di entrare nello
statuto del consumatore moderno. Nessuno può non ammettere il suo successo assoluto,
l’addestramento ai consumi moderni è riuscito oltre qualunque ragionevole speranza. Non
esistono più norme e mentalità che si oppongano di petto all’ondata dei bisogni monetizzati. Il
primo grande ciclo di razionalizzazione e modernizzazione dei consumi è finito. L’era
dell’iperconsumo comincia nel momento in cui le vecchie resistenze culturali sono cadute. La fase
III è quella civiltà in cui il referenziale edonistico si impone come un’evidenza e la pubblicità, gli
svaghi, i cambiamenti perpetui del quadro della vita sono “entrati nei costumi”.
La spiritualità consumeristica
La religione non costituisce più un potere che contrasti l’avanzata dei consumi-mondo, a
differenza del passato la chiesa non impone più il concetto di peccato morale e non esalta più i
valori della rinuncia e del sacrificio. Non è più tanto questione di inculcare l’accettazione delle
prove ma piuttosto di rispondere alle delusioni inflitte dalle mitologie secolari che non sono
riuscite a mantenere le loro promesse e a dare quella dimensione spirituale necessaria alla piena
realizzazione delle persone. L’universo iperbolico dei consumi non è stato la tomba della religione,
bensì lo strumento del suo adattamento alla civiltà moderna della felicità sulla terra. Nel momento
in cui domini una concezione intra-mondana e soggettiva della salvezza, in parallelo cresce la
commercializzazione delle attività religione e para religiose. Nella società degli iperconsumi si
compra e si vende anche la spiritualità. Diventa quindi mercato di massa, prodotto da
commercializzare. La fase III è quella che vede sfumare la linea di demarcazione tra Homo
Religiosus e Homo Consumericus. Ovviamente va sottolineato che “credere, non è consumare”. È
evidente che non si tratti di un inglobamento del religioso nei consumi: assistiamo semplicemente
all’estensione della formula del supermercato fino al territorio del significato, alla penetrazione dei
principi degli iperconsumi proprio all’interno dell’anima religiosa,
L’iperconsumatore “etico”
L’etica costituisce un altro settore di punta del consumo-mondo. Un numero sempre maggiore di
consumatori afferma di essere sensibilizzato nei confronti di quei prodotti. Nelle nostre società
non si consumano più solo “cose”, film e viaggi, si acquistano “prodotti etici” ed ecologici. La
fase III si struttura sotto gli auspici del consumo corretto della spesa civica ed ecologica,
socialmente responsabile. L’iperconsumatore esperienziale esprime il suo pieno consenso ai
mega-show della bontà, alle testimonianze strazianti, a divi che siano a disposizione della
solidarietà. Lo stadio terminale dei consumi si conclude nella sacralità del valore etico, strumento
di affermazione dell’identità dei neo-consumatori. Non c’è più antagonismo tra edonismo e
disinteressamento, idealismo e spettacolo-clisma, consumismo e generosità; la nostra epoca ha
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IL CONSUMO RIFLESSIVO
Si è costruita una nuova cultura che pone il culto della realizzazione personale, della qualità della
vita e della salute infinita al posto dei sogni di discontinuità storica. Siamo testimoni di una sorta
di democratizzazione del dissenso, le critiche al mondo consumistico sono diventate la cosa più
comunemente condivisa da tutti. Man mano che l’ordine commerciale invade le abitudini di vita,
biasimo e insoddisfazioni si moltiplicano, tutti criticano un mondo che nessuno, in fondo,
vorrebbe sostanzialmente diverso. Tanto più l’adesione allo “status quo” è profonda, tanto più c’è
atteggiamento critico.
Dalla vetrina alla coscienza
Proprio come si intensifica l’autonomizzazione degli individui nei riguardi delle grandi istituzioni
collettive, così si verifica un maggiore distacco nei confronti delle marche e dei prodotti di
consumo. Ciò non significa disaffezione, bensì maggior riflessività del consumatore. Homo
Consumericus non cessa di appellarsi a Homo Scientificus per orientarsi e scegliere con
“conoscenza di causa”, per minimizzare gli effetti delle sostanze nocive, per mettere in atto
strategie di prevenzione dei rischi. Nella fase III l’acquistare non va più senza il sapere senza una
prospettiva informata, senza una riflessione competente. Fine dell’epoca del commercio
spensierato ed innocente: eccoci allo stadio riflessivo del consumo elevato a problema, oggetto di
dubbi e interrogativi. La fase III propone l’avvento dei consumi come mondo e come problema,
come grattacapo e come coscienza riflessa. Cambiando le sue abitudini e facendo scelte
“illuminate”, il neo-consumatore si propone come un protagonista libero, che valuta i rischi e
discrimina i prodotti. Il “Prendere parola” non è più solamente una reazione generata da
esperienza di consumo deludenti o presentate come pericolose, è uno dei percorsi intrapresi
dall’individuo per affermare la sua soggettività autonoma e la sua identità personale.
L’iperconsumo come destino
Ora quello che conta prima di tutto è la difesa dei grandi equilibri del Pianeta, la produzione di
merce riciclabile. La protesta globale si è trasformata in strumento di riflessività pragmatica, fatta
di contestazioni mirate, di sensibilizzazione alle emergenze del momento, di appelli a una
modificazione realista e necessarie delle pratiche di produzione. Non è più l’epoca della ri-
definizione dei bisogni, bensì quella dell’eco-consumerismo, delle etichette bio e dell’ecologa
industriale. L’obiettivo perseguito è quello di fare entrare i paesi in via di sviluppo nell’età del
benessere materiale. Abbiamo l’atteggiamento della denuncia radicale, pur non avendo in
contropartita la speranza e l’organizzazione pratica di un altro mondo. Il consumo-mondo avanza
come un destino ineluttabile.C’è una richiesta di regolazione e umanizzazione della
globalizzazione.
avere stima di sé grazie a ciò che si realizza. L’esistenza umana non è stata presa in mano,
dall’inizio alla fine, dall’ambito commerciale ed edonistico: non siamo diventati i consumatori delle
nostre stesse vite.
Rapporti commerciali e socialità
La problematica della de-socializzazione sistematica si è aggravata con lo sviluppo delle reti e
delle nuove tecnologie dell’informazione che progressivamente sostituiranno la tradizionale vita in
società con le interazioni virtuali. Secondo alcuni studi, l’uso di internet accresce la solitudine, fa
leggermente diminuire la quantità del supporto sociale. Il mondo che verrà sarà un mondo di
comunità virtuali, il cui effetto è di distruggere la comunità reale, l’incontro diretto e il legame
collettivo. Tante cose cambiano: i bistrot di quartiere spariscono ma nasce una nuova generazione
di caffè specializzati: birra-bar, vino-bar, karaoke, cybercafè), i giovani comunicano tramite sms
ma amano ritrovarsi per andare al cinema, mangiare, fare acquisti. La società degli iperconsumi
non è sinonimo di cocooning (avvolgersi in un bozzolo) e di confinamento interattivo. Le
apparecchiature audiovisive delle case non hanno assolutamente soffocato il bisogno di essere in
contatto con la gente e di incontrare gli amici. La verità è che sono proprio gli individui più
provvisti di nuove tecnologie che escono di più e incontrano più gente degli altri. Studi recenti
hanno dimostrato che le relazioni virtuali non minacciano quelle personali, al contrario, le
completano. Le persone che utilizzano frequentemente i servizi internet continuano a intrattenere
relazioni fuori rete o cercano di allargare il loro orizzonte. Evitiamo il cliché del declino della vita
sociale. L’indebolimento delle relazioni con il prossimo non va a vantaggio di una clausura sociale,
ma a quello di una socialità allargata.
Annientamento dei valori?
Anche lo spirito di sacrificio e l’ideale di “vivere per gli altri” non sono più in alcun modo
professati, non possiamo stimar la cultura degli iperconsumi a quota zero dei valori e dei
comportamenti altruistici. Malgrado tutte le forme di indifferenza che esistono nei confronti del
prossimo, le nostre società fanno sì che l’identificazione con gli altri sia più favorita che perduta.
Sempre e ancora ricettive nei confronti dell’infelicità altrui e desideroso di sentirsi utile agli altri, il
cuore dell’iperconsumatore non ha cessato di battere: ha solo cambiato ritmo.
La sentimentalizzazione del mondo
L’amore in quanto valore, ben lungi dal declinare, continua a essere posto su di un piedistallo. È
considerato l’immagine più emblematica della felicità. Mai la coppia è stata fondata sul
sentimento, l’idea del buon matrimonio non ha mai tanto escluso quella del matrimonio
d’interesse. Anche se le questioni di denaro sono onnipresenti nella vita quotidiana, un’altra
logica, antinomica poiché affettiva, “disinteressata”, estranea al valore commerciale, non smette
di godere di una legittimità immensa. Nei mass media non consumiamo solo l’amore, ci crediamo;
noi organizziamo e disorganizziamo parti intere della nostra vita in funzione dei battiti del cuore.
L’universo dei consumi-mondo non pone fine al principio dell’affettività sentimentale, lo consacra
quale valore superiore, correlato alla cultura dell’individuo, il quale, proprio perché aspira
all’autonomia personale, rifiuta regolamentazioni istituzionali del tempo privato.
Leggerezza e fragilità
Alla “rivoluzione delle speranze” generata dalle fase II ha fatto seguito la presa di coscienza dei
“danni del progresso”, il sospetto nei confronti delle nuove tecnologie, il timore del degrado del
libello di vita. Anche se la società degli iperconsumi è riuscita a neutralizzare le lotte simboliche
che orchestrano gli atti di consumo, non cessa di riproporre nuove conflittualità tra l’uomo e le
cose, l’uomo e se stesso, l’uomo e il sociale. Dietro le luci della leggerezza consumeristica,
sogghignano sempre le angosce del mal-essere, della lotta per la vita e per la sopravvivenza.
L’umanità si mostra sempre vulnerabile e fragile. Non si profila all’orizzonte l’abrasione dei valori e
dei sentimenti, ma, più prosaicamente, la de-regolazione delle esistenze, la vita senza protezione,
la crescente fragilità degli uomini. Mentre scintilla l’euforia del benessere, ognuno ha la
sensazione di non aver vissuto quello che avrebbe voluto vivere, di essere mal compreso, di
essere ai margini della vita vera. Se dai sondaggi emerge che la maggioranza si dichiara felice,
tutti però, a intervalli più o meno regolari, si mostrano inquieti, scontenti, insoddisfatti della loro
vita privata o professionale. La civiltà che si annuncia distrugge la tranquillità con se stessi e la
pace con il mondo. Sempre più soddisfazioni materiali, viaggi, giochi, speranza di vita: eppure,
tutto ciò non ci ha spalancato le porte della gioia di vivere.
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DELLA DELUSIONE
Come si spiega il fatto che con l’innalzamento della vita, si generava sconforto e scontento? Tibor
Scitovksy, con una sua famosa tesi, si chiede quali siano le forza che spingono il consumatore a
perdere interesse in un bene o in un servizio per acquisirne altri. Egli sostiene che questo sia
dovuto al desiderio di tentare esperienze variate, al bisogno di cambiamento e novità. Distingue il
piacere come bene positivo dal comfort, inteso come bene negativo. In questa visione, la
mancanza di comfort è vista come ciò che deve precedere il piacere: bisogna avere freddo per
apprezzare il fuoco del camino. Comfort e piacere si escludono quindi l’un l’altro. Il consumatore
moderno si trova in uno stato di dipendenza nei confronti del comfort: è più motivato dal desiderio
di evitare il disagio e la frustrazione provocati dal cambio di un’abitudine di quanto lo sia da una
ricerca di ulteriore soddisfazione. Secondo Scitovsky l’aumento del benessere si coniuga a una
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modificazione limitata della felicità del consumatore. Questa è l’economia senza gioia che fallisce
nel dare il piacere massimo e nell’aumentare la felicità dei consumatori.
Consumo e delusione
Hirschman ha messo l’accento sulla delusione intesa come elemento costituente dell’esperienza
umana. Le esperienze di consumo sono la fonte di numerose delusioni perché un insieme di beni
commerciali si rivela incapace di generare le soddisfazioni che ci si attende da essi. Egli rileva che
i “beni veramente non durevoli (mangiare e bere) presentano la notevole caratteristiche di procure
piaceri intensi, di contro, i beni durevoli (elettrodomestici, frigoriferi) danno piacere solo al
momento in cui li si acquista o li si utilizza per le prima volte, sprofondando poi a delusione. La
reazione a questo stato di delusione sta in un ricerca di nuovi oggetti di consumo, in secondo
luogo, ce la prendiamo con noi stessi e in terzo luogo, si rimettono in questione elementi sociale e
battaglie pubbliche con la “presa di parola”. Aderendo a un movimento di protesta, gli individui
ricercano un altro percorso verso la felicità. L’insoddisfazione più grande non scaturisce tanto da
un eccesso di comfort che soffoca il desiderio, ma dall’iperconsumo e dalle privazioni che ne
conseguono. Nessuno ha mai davvero immaginato che un oggetto possa cambiare la vita ed
essere la chiave della felicità. Sebbene cambiamenti non siano sempre tra i più spettacolari, resta
comunque il fatto che l’universo dei beni di consumo funziona come un sistema di novità
permanenti: l’offerta commerciale è capace di procurare più esperienze di piacere che di tedio
perché “succede sempre qualcosa”. Lo shock della delusione è percepito meno di quanto lo
siano l’eccitazione e la soddisfazione di provare cambiamenti sempre rinnovanti nei nostri stili di
vita.
I nuovi vettori della delusione
Ai nostri giorni, le delusioni sono meno suscitate dai beni durevoli di quanto lo siano da quelli
fungibili, in particolare dai prodotti alimentari. Nelle società in cui l’eccesso di peso è vissuto
come un dramma spaventoso, si diffonde l’abitudine di seguire diete, il rapporto con il cibo
diventa una fonte permanente di ansia, si scoraggiamento e sconfitta personale. I prodotti
alimentari hanno perso la loro posizione privilegiata e sono adesso fonte di amarezza e
disappunto. Aggiungiamo anche che i beni collettivi e le esperienze di consumo nello spazio
pubblico sono occasioni sempre più frequenti di delusione, più di quanto lo sia l’utilizzazione dei
beni privati (Es. Ingorghi stradali). Sono solo i consumi del nostro prossimo e i loro effetti a
indisporci; di per se stesso, il comfort privato di cui non godiamo si associa a una grande
sensazione di soddisfazione. Ciò che il consumatore della fase III prova in misura sempre
maggiore è un godimento privato e una “in-comodità” pubblica. Nelle nostre società, il conflitto
non si crea tra comfort e piacere, ma tra l’aspettativa di una soddisfazione e un servizio giudicato
mediocre. È significativo che oggi i motivi di lagnanza si focalizzino più sul sistema dell’istruzione
o i servizi medici che sugli oggetti. Questo è il “paradosso della salute”: mai prima d’ora il libello
sanitario ha raggiunto livelli così altro, mai dubbi e insoddisfazioni hanno trovato tanto modo di
esprimersi. Nella fase III i prodotti sensoriali alimentano il disappunto dei consumatori pi dei
prodotti utilitaristici. Lo zapping è diventato un’abitudine regolare, come si può non riconoscere in
questo fenomeno l’insoddisfazione? Se il cambiare canale è così frequente, significa che una
sensazione di noia domina lo spettatore. Questa situazione è del tutto nuova, nella società
tradizionale, la vita materiale era difficile e quella culturale non suscitava alcun rifiuto, ecco, ora la
situazione si è capovolta: più si moltiplicano le soddisfazioni materiali, più si accrescono le
delusioni culturali.
Vita professionale, vita sentimentale, vita fallita
La sfera professionale è fonte di una crescente area di sensazioni d’insicurezza, di smarrimento e
di dubbi su se stessi. Essere fuori gioco nel mondo del lavoro è sempre più percepito come
carenza e fallimento personale. L’individuo disancorato vive quella che è una realtà economica e
sociale come una questione personale. Ciò che nel passato era vissuto come un destino di
classe, è oggi invece vissuto come un’umiliazione, un’onta personale. Nasce la sensazione di
essere inutili al mondo, di aver fallito in tutto. Ora, numerosi dirigenti si sentono distaccati
dall’azienda, traditi dalla fiducia, altri lamentano un clima di stress. Mentre si alzano i livelli
formazione, si assiste a una forte recrudescenza degli impieghi non qualificati. A incarnare
l’economia senza gioia, è, anzitutto, l’universo professionale. Oltre alla vita lavorativa, la precarietà
tocca anche quella di coppia, impennata di separazioni e divorzi, difficoltà di dialogo. Così
funziona la felicità paradossale: più si esprimono esigenze di vicinanza emotiva e di
comunicazione intensa e più le delusioni punteggiano le esistenze individuali. L’individuo è
condannato a vivere l’esperienza di una sensazione di fallimento personale. La sensazione di una
vita fallita rappresentano sempre più una delle connotazioni dell’individualismo riflessivo: qui sta il
fallimento della felicità paradossale. Il fallimento non è quello del consumatore, ma quello
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concretizza nelle opere quotidiane modeste come il lavoro o anche nei progetti più ambiziosi. Il
fatto è che l’individuo non si accontenta di un’esistenza confortevole: ha bisogno di fare,
costruire, superare se stesso, riuscire nel miglior modo possibile in quello che intraprende. Le
priorità del “fare” relativizzano o compensano le frustrazioni “dell’avere”. Non soffriamo tanto dei
tormenti dei consumi ossessivi, quanto, invece, di quella della vita affettiva, intima e
professionale. Le frustrazioni legate al consumo sono limitate, quelle relative all’esistenza
soggettiva e intrersoggettiva si aggravano. In questi tempi ipermoderni, vediamo che
l’incarnazione di Penia è più nella difficoltà di essere di quanto sia nelle sete di oggetti; più nelle
sventure relazionarli con gli altri e se stessi di quanto sia nel rapporto con le cose.
minima capacità di sopportare frustrazione e vincoli. La spirale della violenza giovanile rivela la
mancanza di limiti simbolici, perdita delle inibizioni, calo della soglia di tolleranza alla frustrazione.
Le violenze che si diffondono non sono più solo una conseguenza meccanica delle
destrutturazioni liberai, ma anche uno dei mezzi che i giovani dei quartieri emarginati mobilitano
per affermarsi, imporsi, compensare i loro insuccessi scolastici, gestire la loro inferiorità sociale.
La violenza funziona sia come una strategia strumentale di acquisizione dei beni commerciali sia
come un veicolo di distinzione personale, tramutando un fallimento in valorizzazione di sé. La
violenza permette di trasformare la disperazione in affermazione soggettiva, in carta d’identità,
fonte di considerazione e gratificazione in certi ambienti. Si tracciano non due, ma tre profili di
individui ipermoderni: all’individualismo per eccesso e all’individualismo per difetto, la fase III
vede crescere quello che potremmo definire l’individualismo selvaggio che associa logica di
carenza (povertà, fallimento) e logica di eccesso (odio, violenza). Ovviamente, l’individualismo
selvaggio non coincide con l’individualismo dei vincenti ma nemmeno si riduce all’individualismo
negativo o subito: questo è improntato al vittimismo, l’altro invece cerca modalità di azione
illegittima e di affermazione di sé proprio per scongiurare l’immagine o la condizione di vittima.
Miseria materiale, miseria interiore
Avendo vissuto un processo di socializzazione in una esistenza non miserabile, i più svantaggiati
vivono in maniera particolarmente dura il fatto di essere precipitati nella precarietà economica. La
povertà è anche ciò che svilisce il rapporto con se stessi e la vita in generale, favorendo l’ansia, la
depressione, la mancanza di stima in sé. La povertà materiale è vissuta come mancanza di
autonomia e progetto. Nella società degli iperconsumi, la precarietà aggrava lo smarrimento
psicologico, la sensazione di aver fallito nella vita. Per le classi mobili e socializzate dal lavoro, le
frustrazioni puramente materiale sono in calo; per quelli di sotto si aggravano, generando la
sensazione di vivere una vita che non è una vita. Questa è la visione della civiltà del benessere, il
suo nuovo calvario. La nuova precarietà è vissuta come una crisi d’identità, un’esperienza
umiliante, deprimente. Allo stesso modo, la dipendenza dai servizi di assistenza sociale si traduce
spesso in un sentimento di scadimento e umiliazione. Nella società degli iperconsumi la
situazione di precarietà economica, non genera solo nuove prove di privazioni materiali su larga
scala, ma diffonde anche una sofferenza morale, la vergogna di essere diverso. Se per gli uni la
fase III significa avere sempre di più vivere più a lungo, per gli emarginati crea, al contrario, la
sensazione di vivere meno e di essere da meno.
AFFLIZIONI E RINASCITA
La fase III ha accentuato ancora di più le ombre della felicità, e la riprova sta nella portata delle
inquietanti relative al futuro, nel brulicare delle frustrazioni del cuore, nelle ondate di sconforto. Il
prezzo da pagare per il benessere è alto e sembra che le scontentezza e la mala-vita vadano di
pari passo con l’arricchimento delle nazioni. Più trionfa il consumo-mondo, più si moltiplicano i
disturbi mentali, più cresce la sofferenza psicologica, la fatica di vivere. L’infelicità della fase III è
stata ricondotta a al cosmo dell’iper-competitività, la cui caratteristica è di rendere l’individuo
sempre più responsabile di se stesso. Anche se la socializzazione “dura” e i grandi flagelli del
passato sono scomparsi, la vita non è, comunque, diventata più facile, poiché ha smesso di offrire
la sicurezza d’identità e quei sostegni comunitari che prevalevano in precedenza. La rivoluzione
dei consumi abbandona gli individui a se stessi e loro devono affrontare le difficoltà dell’esistenza
senza poter beneficiare delle regole e dei sostegni collettivi. Sotto un diluvio di inviti a godere la
vita, si approfondisce irrefrenabilmente il divario tra le promesse dell’Eden e il reale, le aspirazioni
alla felicità e l’esistenza quotidiana. Spingendo i singoli a giudicare e confrontare il loro vissuto
con il metro dell’immagine della felicità euforica, sempre nuova e intensa, la civiltà del benessere
alimenta su scala di massa le frustrazioni e i malesseri esistenziali. Un altro fattore sta alla base
dell’epidemia ipermoderna del mal-essere: le modificazioni dell’educazione familiare. In poche
parole, l’educazione di tipo tradizionalista e autoritario è stata sostituita da un’educazione
psicologizzata, “senza obblighi, né sanzioni”, volta alla piena realizzazione del bambino. Non più
addestrare e punire, ma fare di tutto affinché il bambino non sia triste ed insoddisfatto, non
trovarsi mai nella situazione di dire no e avere dei litigi con lui. Questo tipo di educazione tende a
privare i bambini di norme, schemi ordinati e regolari, necessari alla strutturazione psichica.
Mentre il bambino tende a perdere la capacità di superare le frustrazioni, l’adulto è sempre meno
preparato ad affrontare i conflitti, a sopportare i rovesci dell’esistenza e lo shock delle circostanze.
Durkheim concludeva il suo studio sul suicidio “Il malessere di cui soffriamo non scaturisce
dunque dal fatto che le cause oggettive di sofferenza sono aumentate in quantità o intensità: è
invece prova non di grande miseria economica, ma di un’allarmante miseria morale”.
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La vita ricominciata
Se gli effetti distruttori e deprimenti della società di iperconsumo non possono venir messi in
dubbio, ne esistono altri che aprono prospettive meno sinistre. La nostra epoca è quella in cui la
maggioranza della gente ha più speranza di poter “giocare un’altra mano” e di ripartire su nuove
basi. Se, da una parte, essa moltiplica le ragioni che generano depressione, da un’altra offre
svariati strumenti di diversione e di stimoli mirati a un “giro di carte”. Non tutto è catastrofico nella
società del desiderio poiché Pensa si sposa con il dio Ermes. Spalancando l’avvenire e le opzioni,
le nostre società ri-ossigenano il presente vissuto, aumentano le possibilità di essere rimessi in
pista, di riprendersi, di rifarsi una vita. Mentre le insoddisfazioni abbondano, le occasioni di
liberarsene sono sempre più frequentemente a nostra disposizione. Non terra promessa, né per
sempre valle di lacrime, la società di iperconsumo è una società di smarrimento e di stimoli, di
afflizioni e di rinascita soggettiva.
piaceri del live, di ristoranti e luoghi alla moda. Tanto la gente fa orrore, tanto serve da stimolo e
ingrediente dei piaceri consumistici. L’iper-individuo non è dionisiaco, consuma atmosfera
dionisiaca strumentalizzando il collettivo per le soddisfazioni private. Attraverso lo svago, si forma
il consumo relativista e pluralista dello “ognuno ha i suoi gusti”. Anche se numerosi tipi di svago si
vivono in micro gruppi o comportano un’atmosfera collettiva, non dimentichiamoci che è la
propria casa a rappresentare il luogo privilegiato per svaghi e distensione. Guardare la tv, navigare
o utilizzare il cellulare, occupa gran parte del tempo libero di una persona. La sociologia del
quotidiano ci serve un Dioniso dozzinale, meno assorbito dall’inseguimento dei godimenti sfrenati
di quanto lo sia invece dai consumi mediatici, meno avido di baccanali frenetici che di tranquille
felicità domestiche. L’ideale no è più quello di dissolvere l’Io in iconoclastie inebrianti, ma di
ritrovare la felicità nell’equilibrio, raggiungere l’armonia interiore, vivere in pace, sani e in forma.
Era delle comunità, era degli individui
La principale teoria proposta dagli incensatori di Dioniso è che siamo travolti da un’ondata di
modernità, la cui tipica connotazione è di non essere più contraddistinta dall’individuo, ma dalla
sua dispersione in adunanze specifiche, in insiemi collettivi, in micro gruppi dove primeggiano i
valori di godimento e le emozioni vissute in comune. Là, dove predominava l’atomizzazione
individualistica, oggi s’imporrebbe una nebulosa si piccole comunità, animate da comunioni
intense di affezioni e sentimenti condivisi. Piccoli gruppi, clan e associazioni: ecco il fenomeno
presentato come il segno stesso del carattere sorpassato dall’individualismo, della vittoria del noi
sulle orbite singole, della nuova preminenza del collettivo sull’individuo. L’appartenenza alla
comunità è ormai scelta, rivendicata, manifestamente dichiarata come una maniera di se stessi,
come un veicolo di identità personale. Il riferimento alla comunità è diventato una “tecnologia del
Sé”. Non è tanto una realtà oltre il singolo che si manifesta ma, piuttosto, una strategia personale,
una strumentalizzazione del gruppo ai fini di una valorizzazione e affermazione di sé. Non è
l’evasione da se stessi attraverso emozioni e coesioni collettive a predominare, bensì l’Homo
Individualis, che dispone di se stesso fino alla definizione sociale di sé. Nulla è più imposto
dall’esterno, adesione e uscita sono libere, a geometria variabile, fuori da costrizioni istituzionali.
Dietro ai “noi” comunitari, opera l’individuo al comando di se stesso. I comportamenti e le
emozioni di gruppo non devono nascondere la forte tendenza alla privatizzazione dei consumi e
degli svaghi, acqui acquisti oculati e programmati nel tempo, di un individuo che mal sopporta la
promiscuità della folla, che si irrita per l’attesa alle casse che si informa e confronta i prezzi.
Davvero gli svaghi e i templi dei consumi sono fattori di comunione? La verità è che più che
generare l’unione dei membri di una stessa comunità, riconducono maggiormente l’individuo a se
stesso.
comparsa di nuovi spazi del comfort, ma anche quella di nuove priorità meno tecnocratiche che,
tenendo conto della qualità del vissuto dei fruitori, permettono un approccio più sensitivo al
benessere, all’habitat e agli oggetti. Un’espressione riassume questo slittamento: qualità di vita,
intesa come nuova frontiera del comfort, il nuovo obiettivo centrale della fase III. Il comfort minimo
non è più sufficiente, dato che le innovazioni e ristrutturazioni devono contribuire allo sviluppo
della piacevolezza del quadro di vita. Il modello dominante del comfort moderno era tecnico
funzionalistico; quello che segue vuole essere un comfort di diletto e piacere, un comfort più
individualizzato, sentito, interiorizzato, capace di procurare sensazioni gradevoli, Non è più solo
questione di andare più in fretta, di liberare il corpo da vincoli, di dotare gli alloggi di impianti
sanitari, ma anche di promuovere dei dispositivi che procurino piaceri sensitivi ed emotivi. Più si
afferma il comfort-mondo. Più si afferma il comfort-mondo, più si cancella Dioniso. Non lo
stemperasi del soggetto nei gruppi o il cos pulsionale, ma l’ideale di un quadro di vita
confortevole del quale l’individuo deve appropriarsi personalmente per potersi sentire dentro di
sé, bene o meglio.
L’amore per la propria casa: il comfort nel comfort
C’è un nuovo orientamento del comfort. Si radono al suolo i grattacieli e si ripristinano e
rivitalizzano i centri della città. L’orientamento quantitativo della fase II ha finito il suo tempo; oggi
l’ideale si identifica con la protezione del patrimonio e la ricerca del benessere urbano, con
ristrutturazioni diversificate che permettano di riappropriarsi consapevolmente, giocosamente e
convivialmente dello spazio. È un’epoca che vede dilagare una marea di villette. Grazie al gusto
per questo tipo di casa, non si esprime più un desiderio classico di dimostrazione di successo
sociale, ma, piuttosto si rivela l’importanza attribuita alla qualità di vita, che si amalgama con la
tranquillità, con l’autonomia di ciascuno, con la sicurezza dell’ambiente residenziale. Intolleranza
nei confronti dei fastidi dovuti ad altri, gusto per l’intimità, maggior bisogno di sicurezza: tutti
questi fattori hanno comportato un sovra-investimento nella casa mono-familiare, la scelta di
vivere lottano dalla città. Vissuta come una “bolla” che protegge contro l’esterno, la casa è uno
dei mille segni della spinta di un neo-individualismo che non significa un ripiegamento autarchico,
ma l’aspirazione all’intimità, la ricerca di piaceri protetti, il rifiuto di un ambiente umano subito e
asfissiante. Nella fase III, le aspettative sono cresciute: maggiore attenzione alla luminosità,
esposizione della casa, alla natura. La passione dominante dell’iperconsumatore non di perdersi
in coesioni orgiastiche, ma di vivere meglio “a casa tua”, in un quadro che risponda alle nuove
esigenze di sicurezza, intimità, realizzazione personale. Il bagno, fino a poco tempo fa essenziale
ed esclusivamente luogo d’igiene, comincia a diventare uno spazio di relax e piacere, corredato di
attrezzature sensualistiche (doccia multigetto, vasca idromassaggio), di accessori con valore
estetico e di tutta una serie di prodotti cosmetici. Una maggiore attenzione poi è dedicata alla
qualità dell’arredamento. Il ciclo precedente si è sviluppato intorno alla funzionalità e alla
razionalità pura: non è più così, Il comfort ipermoderno ha valore solo nella misura in cui trasmetta
valori sensibili e tattili, un benessere olistico, sensitivo ed estetico. Dopo la tecnicizzazione fredda
del comfort, ecco la sua edonizzazione, la sua soggettivazione e la sua poli-sensualizzazione. Ciò
che si afferma si mescola al desiderio di un comfort al quadrato: un comfort nel comfort, che non
si contraddistingue più solo esclusivamente per i criteri oggettivi di risparmio di tempo e fatica,
ma per qualità percepite, edonistiche, estetiche e sensitive. La gente passa sempre una maggiore
quantità di tempo a casa. Affinché la casa non dia un’impressione di qualcosa di impersonale,
l’iperconsumatore “cerca oggetti da rigattiere” nelle fiere di anticaglie, mescola gli oggetti,
coniuga gli stili, al fine di ottenere un arredamento personalizzato. L’arredamento della casa si è
distaccato dall’imperativo dell’ostentazione a beneficio del valore dell’atmosfera: alla logica della
dimostrazione di status succede una logica di seduzione affettiva, intimizzata, intra-familiare. Si
modificano anche gli interni, dopo l’arredamento-prestigio, ecco la casa edonistica e conviviale,
creata da un individualismo decorativo di massa. Il comfort della fase III è associato all’attività
decorativa e all’appropriarsi della casa più di quanto lo sia alla passività del consumatore. I modi
di arredare non sono privi di un legame con l’appartenenza a una classe sociale. Resta il fatto che
le regole del gruppo non sono più un ostacolo allo sviluppo degli atteggiamenti e dei gusti del
singolo. Alle regole severe del buongusto seguono modalità di decorazione e arredamento libere,
che rivelano il desiderio di affermarsi come il creatore del luogo dove si svolge la propria vita. La
fase III vede trionfare la psicologizzazione del rapporto estetico con la casa, lo sviluppo di una
relazione affettiva.
Comfort, collegamento e sicurezza
Le famiglie che si trasferiscono nei quartieri appena fuori città, adducono spesso il desiderio di
vivere in un ambiente sociale che non comporti rischi. Il bene benessere non è più concepibili
senza sicurezza. Non sono tanto gli affetti tribali a ridisegnare la vita sociale e individuale, quanto,
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BERE E MANGIARE
Dioniso ha aperto il paradiso del selvaggio, donando agli umani “la felicità suprema del
baccanale”, con i riti dell’abbondanza e la gioia dei festini sfrenati. Questo modello ha avuto una
vita molto lunga, ancora negli anni Cinquanta, una “buona tavola” significava un pasto copioso e
ricco. Nelle grandi occasioni di festa le bevande dovevano scorrere a fiumi, poiché la “buona
vita”, nel senso popolare, comportava libagioni allegre ed eccessi di piacere del palato.
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giorno per giorno. La società degli iperconsumi conduce a tutto, salvo al pieno coincidere del
presente con se stesso. Invece della riconciliazione con l’attimo, la fase III comporta un rapporto
problematico e ansiogeno con se stessi e il tempo immediato. È così che la civiltà edonistica è
meno associata alla leggerezza del vivere di quanto invece lo sia alla riflessività e alla sensazione
della complessità della vita. Si è ben lontani dal pascersi del momento che si trascorre e dei
piaceri come vengono, ora c’è una cultura preventiva, ansia per la salute e l’estetica, tensione per
le esigenze del presente e quelle del futuro.
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tanno assumendo le norme e i poli di riferimento che organizzano la vita sociale. Disgiunzione tra
performance e qualità di vita, discordanza tra il superamento di se stessi ed edonismo: è proprio
dalle fondamenta della fase III che si ergono le dighe che ostacolano l’egoismo di superman. Oggi
sono molti di più i dipendenti che si lamentano di essere ignorati, non considerati giustamente:
nella scala dei fattori di rischio che mettono in pericolo la salute mentale dell’ambito
professionale, la mancanza di riconoscimento occupa il secondo posto subito dopo il
sovraccarico di lavoro. La società d’iperconsumo ha sensibilmente ampliato l’esigenza di
benessere che, non limitandosi più al comfort materiale domestico, ingloba oggi anche il proprio
rapporto conio prossimo, la valorizzazione e il riconoscimento del lavoro. La percezione della
mancanza di riconoscimento appare in larga misura come il rovescio della medaglia di quella
società che si strutturi proprio intorno alla disperata ricerca della qualità di vita. L’atmosfera sul
posto di lavoro è giudicata fondamentale. Ormai il clima che pervade l’azienda è in cima alla lista
delle preoccupazioni dei dipendenti, iene prima di una retribuzione leggermente superiore o alla
possibilità di evoluzione della carriera. La ricerca di una qualità di vita migliore non è più
circoscritta alla sfera priva, si è estesa anche al lavoro. L’individuo ipermoderno abbraccia solo a
distanza la religione dei record, il suo primo auspicio è quello di sentirsi bene nel suo ambiente
professionale, di lavorare in un ambiente simpatico che rispetti le persone e i meriti di ognuno. Si
acclama la qualità di vita sul posto di lavoro. Se alcuni accomunano il lavoro a un mezzo di
sostentamento obbligatorio e fastidioso, altri, al contrario, ci trovano uno stimolo, un notevole
interesse. La fase III si coniuga con la pluralizzazione dei modi di rapportarsi al lavoro. Oggi, i
vincenti, non si muovo più in nome di un fine estraneo a loro stessi, poiché la loro motivazione
essenziale è di percepire sensazioni forti, di vivere sotto tensione. All’insegna della corsa alla
rapidità, non si disegna tanto un neo-ascetismo produttivistico, quanto, invece, un narcisismo
emotivo che cerca, per le vie più diverse, di "buttarsi in rete”, di identificare il rapporto con il
tempo, di provare sensazioni dell’attimo.
L’euforia sportiva
Ciò che fa dello sport-spettacolo un potente strumento che mette in moto un’eccitazione affettiva
è, da una parte, la sua capacità di creare suspense tra i quasi-pari che si affrontano e dall’altra, di
generare o intensificare i sentimenti di appartenenza al gruppo. Se il pubblico si scatena, è perché
si trova di fronte a “volontà di vittoria”. Le folle non vivano solo perché si risvegliano simili ma
anche perché si possono osservare il massimo rendimento del corpo umano, prestazioni fuori dal
comune. C’è identificazione (logica della similitudine) ma anche dissomiglianza manifesta con gli
atleti, con le loro doti fuori dalla norma che li portano a un livello diverso dal nostro (logica
dell’alterità). Non si può capire l’effervescenza emotiva, che avvolge i grandi incontri sportivi, se
non si tiene conto il rapporto con ciò che non ci assomiglia, la dissomiglianza dei campioni dello
stadio dai comuni mortali.
Società dopante, sport-svago e corpi pigri
In un’epoca di palestre, ginnastica, integratori, body building, si è potuto analizzare n nuovo
narcisismo, ossessionato dai record, dai muscoli. L’iperindividualismo non si contraddistingue più
per l’edonismo, quanto invece, per i desideri di performance fisica, di attivismo stacanovista.
Soffrire distraendosi. Per le donne, le norme tiranniche della magrezza spingono a tenere sempre
sotto controllo il peso e l’alimentazione, a voler rimodellare la figura, fino al punto di farle
sembrare dei forzati dell’aspetto. Questa modificazione è dimostrata sia dal crescente successo
degli sport di scivolamento. Nati come razione alle performance a punteggio o cronometro, gli
sport di scivolamento si basano su motivazioni incentrate sul piacere, l’emozione, le sensazioni
immediate: trionfa una nuova sensibilità che, rifiutando la dimensione tradizionale delle gesta
sportiva, acclama i piaceri sensitivi. Contemporaneamente, lo zapping sugli sport non smettono di
guadagnare terreno al fine di evitare noia, trovare nuovi orizzonte e piaceri. Lo sport è diventato
una perfetta immagine dell’era degli iper-prodotti: non cessa di segmentare il mercato, di
diversificare l’offera, lanciare nuovi prodotti, incrociare vecchie discipline (mountain-bike,
parapendio). Indubbiamente, lo sport-tempo libero non è sempre estraneo al desiderio di superare
i propri limiti: si fa jogging con il cronometro in mano, ci si sfinisce per vincere una partita contro
gli amici. Quello che interessa è mantenersi in forma, igiene di vita, piaceri della scoperta. Il neo-
sportivo non è ossessionato dall’exploit: la cosa a cui mira prima di tutto è il mantenimento del
corpo, sentirsi bene o meglio. Ciò che il nuovo universo sportivo rivela non è altro che
l’espansione sociale dell’immaginario della qualità di vita. È risaputo che nella fase III la pratica
degli sport si è ampiamente diffusa. Non perdiamo però di vista il fatto che gli adepti della pratica
sportiva intensiva a scopo competitivo rimangono una minoranza. Lo sforzo e la disciplina di cui
danno prova i nostri contemporanei sono talmente lontani dal corrispondere alle norme di igiene
di vita che si è dovuto lanciare campagne di sensibilizzazione nei confronti dell’attività fisica per
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gli ambienti del consumo sono toccati da questa dinamica. Con l’abbigliamento sportivo, per
esempio, si accompagna a più funzionalità ed estetica: più gli articoli sportivi cercano di fornire
un’immagine “da campione” più si impone il look-moda. Lo stesso vale per la biancheria intima
femminile. La collocazione funzionale non basta più: la fese III è molto più sinonimo di
cosmetizzazione generalizzata dei segni, degli oggetti e dei corpi di quanto lo sia di de-
concretizzazione/ de-sensualizzazione del mondo. È il periodo del boom della chirurgia estetica,
non si tratta di arrivare alla perfezione estetica, ma di correggere un difetto troppo evidente, di
guadagnare maggiore fiducia in se stessi, essere in sintonia con la propria personalità. Qui dare
rilievo all’ideale della performance non convince, poiché lo scopo perseguito è il ben-essere
interiore. C’è un espansione sociale dei desideri di bellezza, di un’estetizzazione dei
comportamenti e delle aspirazioni della maggior parte della gente. Con la fase III si afferma un
tipo di individualità nella sensibilità estetica, una nuova artizzazione degli stili di vita e di consumo,
contraddistinta da una parte dal distacco nei confronti dello stretto utilitarismo e, da un’altra,
dall’obiettivo di esperienze fatte per il piacere. Ovunque, man mano che l’abbondanza permette a
tutti di scegliere tra gli innumerevoli elementi proposti dall’offerta, i gusti si cingolarizzano e si
diversificano, mentre, allo stesso tempo, il registro estetico modella un consumo carico di
aspettative edonistiche, sensoriali e immaginarie. Attraverso la dematerializzazione del mondo
progredisce ciò che potremmo chiamare un erotismo allargato avido di dilatazioni qualitative e di
sensazioni rinnovate in ambiti della vita sempre più ampi. Tanto più si propaga un certo
“ascetismo” igienista, tanto più si intensifica una dinamica di psicologizzazione ed estetizzazione
dei piaceri. Homo Æsteticus si impadronisce di Homo Consumericus. La società degli
iperconsumi rappresenta lo sviluppo dell’ideologia e delle pratiche per superare se stessi, ma
anche quella che consacra il corpo delle sensazioni, un nuovo immaginario del ben-essere, che
integra dimensioni estetiche e sensitive, psicologiche ed esistenziali. Ne consegue che
l’individualismo contemporaneo si presenta sotto una doppia veste, sensistica e di performance,
narcisistica e prometeica, estetica e bulimica. Il suo modello non è Dioniso, né Superman, è Giano
Bifronte, un Giano ibrido, ipermoderno, che sfrutta a tutto campo le potenzialità aperte da quelle
che sono le due grandi finalità della modernità: efficienza e felicità sulla terra.
Medicalizzazione, prudenza e inquietudine.
L’individuo è impegnato a consultare un numero sempre maggiore di medici, a medicalizzare le
sue abitudini di vita, seguire una dieta sana, consumare cibi bio, ridurre le calorie. Se la società
dell’iperconsumo è dopante, resta comunque strutturalmente ossessionata dalle inquietudini di
prevenzione e manutenzione sanitaria. È un’altra passione a invadere la mente: quella del
mantenersi, la conservazione della salute. Più di Superman, è Igea, la dea della salute, a essere
oggetto di venerazione. Una salute fonte di ossessione, della quale dà prova anche il proliferare
delle medicine naturali. Ormai le terapie alternative si contano a centinaia. Nel momento in cui la
scienza medica e farmaceutica fanno miracoli, molte persone vedono disattese le loro aspettative
di fronte ai rischi iatrogeni e anche a ciò che percepiscono come una disumanizzazione tecnica
delle pratiche sanitarie. Le passioni sfrenate per il superamento di se stessi sono lontane
dall’essere diventate dominanti: La fase III vede affermarsi i timori legati a un potere tecnico-
scientifico demiurgico e, in correlazione, il culto delle cure naturali, la regolazione del sistema
nervoso simpatico, l’armonizzazione delle funzioni organiche. C’è un maggiore scetticismo nei
confronti degli effetti “dello scientifico”. In questo quadro, l’immagine dominante di domani non è
“l’uomo più”, ossessionato dal superamento dei suoi limiti, bensì il principio di precauzione, la
ricerca di terapie non iatrogene, diversificazione dei bisogni. Più le nostre vite dipendono dagli
exploit tecno-scientifici e più il nostro pseudo Superman ripone la sua fiducia in Panacea, la dea
greca delle piante medicinali. Con la fase III si è passati dallo stadio della performance “semplice”
a quello della performance riflessiva, formulata come un problema. Il sovraconsumo di
psicofarmaci non rivela solo la fragilità dell’individuo ipermoderno, ma anche il suo approccio
consumeristico: avere sollievo senza aspettare il tormento del mal-essere. Nella fase III
l’iperconsumatore ha sempre meno mezzi simbolici al fine di dare un significato alle difficoltà che
incontra nella vita: in un’epoca in cui la sofferenza non ha più la connotazione di prova da
superare, si generalizza l’esigenza di cancellare il più rapidamente possibile, chimicamente, i
problemi che ci affliggono e che appaiono come una semplice disfunzione, un’anomalia tanto più
insopportabile alla luce del benessere che si impone come ideali di vita predominante. Il ricorso
agli psicofarmaci può essere interpretato come la pressione dell’ideale del comfort che interessa
anche il campo psichico. La “medicalizzazione dell’esistenziale” non è tanto la risposta alla
dittatura della performance, quanto, invece, l’effetto della potenza dell’immaginario del benessere
e della qualità di vita che ormai inglobano il campo psichico.
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I consumi palliativi
Che cosa spinge in modo perpetuo l’iperconsumatore? Lo sfaldamento dei legami sociali,
l’affievolirsi dei sentimenti di appartenenza ad una comunità, allentamento dei legami familiari.
Nella fase III tutti questi fattori hanno accentuato la sensazione di isolamento degli esseri umani,
l’insicurezza interiore, le esperienze di insuccesso personale, le crisi soggettive e intersoggettive.
In tutta una parola: il mal-essere. Più i rapporti sociale e interpersonali diventano fragili o
frustranti, più aumenta la mala-vita e di conseguenza, il consumismo divampa, come rifugio,
evasione, piccola fuga. Sempre in quest’ottica, i consumi nella fase III, destinati a risollevare il
morale, a volersi bene, si contraddistinguono per il loro valore emotivo. Homo Psychologicus è
diventato Homo consumericus. Non momento in cui i rapporti sociali si affievoliscono e le
capacità di influire sulle tendenze negative sembrano poco credibili, i consumi rappresentano una
sfera scelta e dominata dai soggetti, un universo proprio, in cui si cercano incessantemente
elementi di felicità. Iperconsumo: non tecnica al servizio del superamento di se stessi, bensì
ricerca di un tempo per sé, in cui ci si prende cura di sé.
SEX MACHINE?
Il sesso è spesso presentato come un altro continente emblematico della supremazia di
Superman. Le relazioni sessuali tendono a trasformarsi in “beni di consumo”, che si possono
scegliere a piacimento, senza vero impegno, un pò come in un self service. C’è un allineamento di
Homo Sexualis con Homo Consomator. Se, nei periodi precedenti, predominava la regola del
pudore eccessivo, oggi avremmo una “libertà imposta”, un’inedita persecuzione, che oi altro non
è se non “l’orgasmo obbligatorio”. È in questo modo che il diritto al piacere, incensato dalla
gioventù ribelle, è diventato un obbligo. L’imperativo della performance non è più limitato al lavoro
o allo sport, si è appropriato anche del pianeta sesso. L’essere umano vuole eccellere in tutto,
sesso compreso (Es. Operazioni o tecniche per stimolare, ringiovanire, aumentare i caratteri
sessuali e le zone del corpo, alto uso di viagra). Mentre si diffondono la “dis-erotizzazione delle
persone” e l’impersonalità del rapporto con l’altro, la fase III si trasforma gli individui in “carenti di
amore” in soggetti calcolatori. Le mitologie del cuore non si sono inaridite. La promozione sociale
di Homo Erotics non ha in alcun modo fatto naufragare le aspettative e il discorso amoroso. La
fase III è contraddistinta dall’aumento dei nuclei composti da una sola persona, eppure l’ideale
della coppia, il desiderio di vivere un grande amore non sono svaniti. È solamente scomparso il
modello fusionale dell’amore, non l’ideale amoroso. Non esiste la morte dell’affettività, non
assistiamo tanto a un processo di de-sentimentalizzazione, ma piuttosto, a una crescente
affettivizzazione dei rapporti tra gli esseri umani. La fase III è contraddistinta anche dalla
psicologizzazione di massa delle sessualità e della vita di coppia più di quanto lo sia dalla de-
simbolizzazione e dal collasso affettivo. Oggi la soddisfazione sessuale è un obbligo, c’è un
nuovo ideale di virilità che tiene conto dell’importanza del desiderio femminile di essere
soddisfatto. Non c’è praticamente da dubitare che l’infelicità sessuale degli individui sia più
difficile da accettare nel momento in cui gli appelli al piacere inondando la vita quotidiana. Più
trionfa la compiutezza erotica, più essa genera frustrazione in chi ne è escluso. Nel passato, il
sesso era una corvée, i matrimoni erano un’unione senza attrazione, la donna non raggiungeva il
piacere per la paura di dover affrontare una maternità. Il cambiamento è notevole: ora le donne
sono diventate più attive e edoniste nel rapporto amoroso. Non è l’ossessione dei record che
contraddistingue il momento ipermoderno, ma piuttosto l’impronta edonistica, la diversificazione
dei comportamenti sessuali della maggior parte della ente. L’individuo ipermoderno dichiara un
alto grado di felicità per la vita sessuale. La soddisfazione che si trae dalla propria vita sessuale
non è solo in funzione del numero degli orgasmi: è vincolata al desiderio dell’altro, ai legami di
complicità, al fascino della seduzione, all’intensità dei sentimenti provati per il partner. Tutti
fenomeno che, in generale, il tempo deteriora. È così che la soddisfazione erotica cala con il
perdurare del rapporto di coppia, con la banalità dei giorni, con routin-inizzazione delle relazioni e
con le ferite che ognuno subisce.
iperconsumatori vogliono provare emozioni davanti allo spettacolo di essere vicini più di quanto
vogliamo ammirare delle figure ideali. Il mostrare tutto, vedere tutto ha spinto a definire la società
degli iperconsumi come società trasparente. In questo capitolo si analizzerà una dimensione della
vita soggettiva, sfuggendo in larga misura al processo di pubblicizzazione dell’Io, sostiene una
logica dell’inevitabile: l’invidia. L’invidia è il sentimento di dispiacere che a volte si prova vedendo
le qualità o la felicità altrui; è la gioia maligna davanti all’infelicità degli altri, l’auspicio che siano
privati dei loro vantaggi. L’invidia è ciò che si tiene segreto. Quando Penia, Dioniso o Narciso
sono stati chiamati in causa come chiave di lettura, Nemesi, la potenza divina che per i greci
rappresentava l’invidia, restava nascosta. Renard notava che “non basta essere felici, è
necessario che gli altri non lo siano”.
IL MALOCCHIO
È nelle società primitive e nelle comunità rurali tradizionali che l’invidia trova la sua forma più
coerente, più accentuata, più socialmente strutturata. In queste culture le infelicità di cui soffrono
gli uomini non sono mai intese come il frutto del caso o di un puro determinismo naturale: sono
viste scaturire dalla cattiveria e dalle gelosie degli altri. Per spiegare la malattia, la morte, un
incidente si parla di “malocchio”, la magia malefica ispirata da sentimenti sinistri e dalla gioia di
generare pregiudizi; tutto ciò che di cattivo avviene è imputabile a una predisposizione d’animo
colmo di odio di qualcuno. Ne consegue che quelle tradizionali possano essere considerate
società davvero ossessionate dall’invidia. Nelle comunità rurali tradizionali c’è la paura dell’invidia.
Il vicino è considerato nemico più che amico. Gli avvenimenti felici fanno temere la gelosia altrui,
quindi non bisogna sbandierare la propria fortuna con gioia sentendosi migliore degli altri, per
evitare situazioni di distruzione o manifestazione di tendenze invidiose. Significativamente, il plus
di alcuni indica un manus per gli altri. Quando esista una sorta di standard della somma dei beni,
nessuno guarda di buon occhio ciò che un altro ottiene e tutti devono temere il risentimento altrui.
I sentimenti di fratellanza serene non dominano, il primo posto è occupato da quelli maligni e
sospetti poiché il più piccolo vantaggio personale è destinato a suscitare l’animosità dei parenti e
dei vicini.
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gioia maligna a vedere le sfortune degli altri ma un appagamento nel vedere che non siamo i soli a
soffrire. Apprezziamo meglio la condizione che viviamo se sentiamo che sfuggiamo al peggio.
La felicità in parole
Abbiamo meno paura di scatenare sentimenti di bramosia e gelosia di quanto teniamo di lasciare
immaginare agli altri che non siamo felici. Riconosciamo di essere fortunati e privilegiati perché è
di cattivo gusto ostentate un lusso vistoso ma non la felicità. È diventato normale esprimere la
propria gioia in termini superlativi, dichiararsi fortunati senza dovere immediatamente toccare
ferro per scongiurare la cattiva sorte. Non temiamo più di provocare reazioni di invidia da parte
degli altri.
Paura dell’invidia e modernità
Man mano che si imponeva l’idea che “nessuna potenza misteriosa e imprevedibile interferisce
con l’andamento del mondo” e che la natura non ubbidisce a volontà umane ma leggi
impersonali, la stregoneria e la magia nera hanno smesso di essere dei sistemi che regolano le
credenze e i comportamenti umani. Le rivalità invidiose che erano tradizionalmente considerate un
pericolo sono adesso viste come fattori di progresso che consentono di sfuggire alla povertà e
alla violenza. Ne consegue che le culture moderne si sono meno impegnate a scongiurare l’invidia
che a favorire ciò che è probabile che l’acuisca. È nata una nuova civiltà in cui è diventato
pensabile ed encomiabile vivere come se l’invidia non esistesse o non comportasse alcun
pericolo distruttivo. Diffondendo una cultura che incoraggi a vivere per sé e ad amare se stessi, le
società consumistiche hanno sostituito l’ossessione dell’invidia con l’esibizione della felicità, la
paura delle maldicenze con l’indifferenza verso il prossimo. Da lì, il perseguimento della felicità si
è imposto come una norma legittima. Ormai ci si prende gioco o si ride delle brame altrui: l’età
trionfale dei consumi può essere considerata la tomba di questo terrore immemorabile.
LA METAMORFOSI DELL’INVIDIA
Con la democrazia, ciascuno, conquistando una posizione paritetica agli altri, può confrontarsi
con loro e tende a trovare insopportabile il benché minimo privilegio di cui gode il vicino. Quando
l’ineguaglianza è la legge comune di una società, le diseguaglianze più grandi non colpiscono più
gli occhi; quando tutto è pressapoco sullo stesso libello, anche le più piccole feriscono.
Decretando l’uguaglianza e permettendo alla maggioranza delle persone di aspirare un maggior
numero di godimenti materiali, la società democratica non fa altro che diffondere i confronti
invidiosi e intensificare il risentimento di tutti. L’interpretazione secondo cui la modernità
democratica favorisce l’invidia a un libello generale di frustrazioni perdura a oggi con il supporto
dello schema del desiderio mimetico: 1) Non si desiderano le cose di per se stesse ma perché un
altro le desidera. 2) facendo convergere i desideri sullo stesso oggetto, l’altro diventa sia modello
sia rivale e ostacolo. 3) Meno il divario fra gli uomini è profondo, più essi limitano e si scatenano le
gelosie. L’uguaglianza e il benessere, ben lungi da preparare una pace armoniosa, corroborano
l’amplificazione di desideri rivali e di sentimenti di amarezza. Non sono più molto numerosi coloro
i quali, di classe media, soffocano di rabbia alla vista dell’auto, della casa, dell’arredamento. Nella
fase III gli oggetti di consumo hanno perso molto del loro tradizionale potere di sollecitare reazioni
di ostilità. I desideri consumistici proliferano, ma diminuisce la gioia maligna di vedere l’altro
privato dei suoi vantaggi materiali. La verità è che la società degli iperconsumi non affretta
“l’inferno delle cose” piuttosto, lo allontana da noi. Le persone considerano con meno acredine le
differenze materiali che esistono fra loro e il prossimo. Quando il consumo emotivo ha la meglio
su quello di status, gli individui sono più auto-centrici, più motivati dalla ricerca di esperienze
esistenziali positive di quanto lo siano dal desiderio negativo di vedere gli altri spogliati dei loro
vantaggi materiali. Oggi è mio probabile che i beni materiali che l’altro possiede ci inquietino e ci
avvelenino l’esistenza: la cosa importante è di “essere più”, uscire di più, vivere esperienze
rinnovate ed euforizzanti. Il regime dell’iperconsumo è riuscito ad attenuare le frustrazioni se non
proprio di tutti, almeno di un numero crescente di persone. Visto che non mostra più un’immagine
degradante, di se stessi, l’indumento a buon mercato non è più vissuto in modo umiliante. Non
tutti hanno accesso alle marche prestigiose ma indossare abiti meno costosi non è più un segno
di indegnità sociale e neppure di esclusione dalla moda. Fatta eccezione per gli adolescenti, gli
individui non provano più alcun piacere a suscitare l’invidia degli altri ostentando le ultime
tendenze. È cosi che diventa frequenta sentirsi allergici alle scelte consumatrici degli altri, molto
semplicemente non condividiamo i loro gusti estetici, e la loro maniera di vivere è così lontana da
ciò a cui attribuiamo valore che non è in grado di risvegliare la nostra invidia. Diversificando i
gusti, l’estetica e gli stili di vita, legittimando sistemi di valori eterogenei, la società degli
iperconsumi ha grandemente contributo a ridurre il dispiacere che si prova davanti al modo con il
quale gli altri, più o meno vicini, gestiscono il loro bilancio e il loro ambiente quotidiano.
Lusso e confronto provocatorio
Le spese di lusso rivelano la stessa tendenza a un affievolimento del ruolo dell’invidia. Veblen
sottolinea che il motore dei consumi dispendiosi non è altro che una corsa alla stima, al confronto
provocatorio. Il motivo di questi acquisti sono: avere la meglio sugli altri, attirare la stima dei
propri simili. Tuttavia, stanno nascendo altri tipi di acquisti costosi che, nutriti da motivazioni
personali, mirano a esperienze più raffinate, sensitive ed estetiche. Il fine è allora quello di godere
intimamente della differenza con le masse, di assaporare piaceri rari e per se stessi più che per
suscitare la bramosia altrui. Vivere il lusso per sé, invece di farne ostentazione: la fase III si
contraddistingue per la regressione dei confronti abbaglianti a vantaggio di una neo-
aristocratizzazione interiore, di una esperienza emotiva di cose belle. All’indignazione morale
suscitata dal fasto dei privilegiati subentra l’inquietudine, nutrita dall’inquinamento provocato dalle
industrie e dalla devastazione delle risorse naturali del Pianeta; agli strali tradizionali lanciati
contro il superfluo e la vanità succedono le proposte contro il degrado del gusto, dei paesaggi
naturali della qualità di vita. Vivere meglio, prendersi il proprio tempo. È come se il lusso avesse
perso la sua capacità di provocare risentimento, l’ostilità aperta, il desiderio di spogliare i ricchi
dei loro beni. Il lusso faceva démodé, ora è di moda. Nelle società degli iperconsumi non è più
tanto questione di combattere dei privilegi sottraendo beni ai ricchi, quanto di accedervi con lo
scopo di godimenti emotivi e privati.
Invidia esistenziale e invidia generale
Il successo degli uni favorisce il rancore degli altri ovunque fioriscono gelosie e gioie maligne.
Tuttavia, non sono più tanto le differenze di ricchezza a provocare i sentimenti malevoli quanto
alcune categorie di beni, la cui caratteristica è proprio quella di non poter essere comprati.
Prestigio, celebrità, talento, vittoria, bellezza: ecco che cosa suscita l’invidia. Quando regna il
consumo-mondo, sono i beni non acquisibili che alimentano le passioni maligne. Certo, le felicità
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e le soddisfazioni altrui sono sempre state i detonatori delle reazioni invidiose: semplicemente,
questa verità si impone oggi con un’evidenza più cristallina. Eccoci chiaramente in un’epoca di
invidia postmaterialista o esistenziale. La mancanza di fiducia in se stessi, la sensazione di
impotenza, gli insuccessi, l’insoddisfazione sono altrettante esperienze che aprono la strada ai
risentimenti. Non mancano le persone che alle gioie delle star e dei ricchi, provano rabbia e
invidia. Permane quindi l’invidia del singolo così come l’invidia generale. Il panorama dell’invidia
mostra sempre picchi altalenanti.
Il regresso dell’invidia
L’universo delle merci è stigmatizzato, ma tutti auspicano di farne parte. Proprio come si osserva
un acquietarsi della conflittualità sociale e politica, così, nella fase III, assistiamo a un affievolirsi
del rancore nei riguardi dei più avvantaggiati. Se le prime democrazie moderne hanno generato
“l’invidia, la gelosia e l’odio impotente”, le nostre sono testimoni di un calo di sentimenti di
rancore e di ostilità nei confronti dei ricchi. L’iperconsumatore soffre più a causa di se stesso che
a casa della prosperità insolente degli altri, una prosperità che suscita più curiosità o indifferenza
che rabbia devastatrice. Questo non impedisce la reviviscenza delle proteste e delle critiche al
neo-liberalismo: semplicemente si nutrono più di indignazione-morale che di indignazione-invidia.
Le persone tendono a “volerne a se stessi picche al sistema”, poiché ognuno è ritenuto
responsabile della sua riuscita o del suo fallimento. Man mano che le regole collettive si
cancellano, soppiantate dalle norme dell’individuo che si governa autonomamente, l’invidia
distruttrice cede il passo a una cultura che ferisce la stima in se stessi dei perdenti. Alla fine della
guerra di tutti contro tutti segue la sminuente rimessa in causa di se stessi da parte di se stessi.
Nell’epoca dell’iperindividualismo ciò che più avvelena l’esistenza non è il bene degli altri ma la
nostra sventura. Le infinite sollecitazioni o le offerte di felicità non fanno certo scomparire l’invidia,
ma riducono la sua potenza invasiva, visto che ognuno si preoccupa più della sua vita che di
quella degli altri. Ormai nulla è più importante della del vivere “più”, sentirci meglio, fare nuovo
esperienze. Diventa difficile sostenere che “invidiare ed essere invidiati sono le nostre attività
principali su questa terrea”. Questo giudizio però, valevole per le società olistiche, non è più
valido nell’epoca dell’iperindividualistica, visto che la preoccupazione per la felicità privata ha la
meglio sul modo di guardare alla felicità degli altri. La verità è che noi sappiamo valutare sempre
meglio la nostra felicità senza paragonarla a quella altrui. Le società tradizionali hanno favorito lo
sviluppo dell’individuo e le democrazie moderne nascenti hanno continuato l’opera. Ne consegue
che sia le civiltà di vergogna sia le civiltà di colpa possono essere considerate civiltà di invidia. A
questo livello, la società degli iperconsumi segna una rottura. Non solo la paura dell’invidia non
regola più le rappresentazioni sociali e individuali, ma i desideri di vedere il prossimo privato dei
suoi vantaggi hanno una rilevanza infinitesimale nell’economia psichica delle persone. Forse per
la prima volta, la società del narcisismo è riuscita ad attenuare la forza dell’invidia provata da
Nemesi. La gioia maligna si attenua, l’indifferenza nei confronti dell’altro cresce e ben diversi
crucci affliggono l’iper-individuo che soffre di solitudine, d’ansia, di dubbi su se stesso. Un male
ne scaccia un altro. Nella felicità non c’è progresso.
scetticismo che all’entusiasmo, ovunque si esprimono dubbi sul progresso così come si avanzano
richieste di protezione e limiti: è svanita la fede in un futuro necessariamente migliore e più felice.
Mentre la fiducia nel futuro si affievolisce, aumentano i timori per l’ecosistema, si moltiplicano gli
appelli per un tipo di sviluppo economico alternativo e nascono nuovi movimenti religiosi, nuove
aspirazioni spirituali: tutti fenomeni che sembrano essere il segno di una crisi della cultura
materialistica della felicità. Le meraviglie tecnologiche si moltiplicano, ma il pianeta è in pericolo. Il
mercato offre sempre più numerosi mezzi di comunicazione e distrazione. Produciamo e
consumiamo sempre di più ma non per questo siamo felici.
FELICITÀ E SPERANZA
È in nome della felicità che si dispiega la società degli iperconsumi. La produzione di beni, servizi,
media: tutto è pensato e strutturato principalmente mirando alla nostra più grande felicità. In
questo contesto proliferano le guide e i metodi per vivere meglio: la tv e la stampa distillano
consigli per vivere meglio. Siamo passati dal mondo chiuso all’universo infinito delle chiavi della
felicità: è il tempo del coaching generalizzato e della felicità-istruzioni-per-l’uso per tutti. Bruckner
propone l’idea “a forza di avere fatto della felicità un ideale supremo, questo è diventato un
sistema di intimidazione. È cosche il diritto alla felicità si è trasformata in imperativo d’euforia che
genere vergogna o disagio in chi se ne sente escluso. Nel momento in cui regna il “dispotismo
della felicità”, le persone non solo sono più infelici, ma si sentono in colpa perché non si sentono
bene. Questa verità indica la nuova pressione che l’ideale di realizzazione personale esercita sui
modi di percepire e giudicare la nostra vita. Il punto è incontestabile: erigendo la felicità a norma
onnipresente, la nostra epoca rende ancora più difficile la prova di chi fallisce nel raggiungerla.
Nel momento in cui l’uomo è posto come valore primo, la felicità si impone immediatamente
come ideale supremo: questo processo non ha fatto altro che amplificarsi. L’ossessione
contemporanea della realizzazione completa rappresenta il compimento perfetto e irresistibile del
programma della modernità individualista e commerciale. Nulla fermerà la promozione a tutto
campo della realizzazione soggettiva. Sempre più mercato, sempre più stimoli a vivere meglio.
Non c’è stata alcuna inversione di logica, quello che si verifica è un effetto ultimo, coerente e
pletorico della civiltà individualista-commerciale che amplifica continuamente la sua gamma di
offerte e promesse allo scopo di una vita migliore. L’insuccesso, la solitudine, le ferite del cuore, la
noia, la povertà, la malattia, la morte: tutte queste esperienze portano in se stesse l’infelicità,
indipendentemente da qualunque imposizione ideologica e del dovere di felicità in particolare. Dal
momento in cui l’individuo è libero dai vincoli comunitari, la sua ricerca irrefrenabile di felicità non
può che rendere la sua esistenza ancora più Problematica e insoddisfacente: tale è il destino
dell’individuo socialmente indipendente, il quale, senza sostegno della collettività o della religione,
affronta le prove della vita solo e disarmato.
Saggezza dell’illusione
Chi afferma che “l’uomo felice è quello che non ha più nulla in cui sperare coltiva l’arte del
paradosso”. Speriamo troppo? Per i comuni morali una zero-speranza è una disperazione. Si è in
errore quando equiparano le promesse della società degli iperconsumi a un sistema di
intimidazione e colpevolizzazione: esse sono anzitutto un complesso di miti, sogni, significati
immaginari che, dando impulso a scopi e fiducia nell’avvenire, favoriscono la ri-ossigenazione di
un presente spesso senza fiato. Se, come vedremo, c’è un’illusione della saggezza, c’è anche una
saggezza dell’illusione. L’infelicità non è una fatalità, che esistono delle strade, se non per essere
felici, almeno perché le cose non vadano così male. Risvegliando nuovi centri di interesse e nuove
prospettive, è meno dogma, o macchina da obblighi, di quanto invece sia motorino d’avviamento
dell’esistenza oltre che strumento per riappropriarsene.
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cimento personale e scelta, indipendentemente da qualunque cultura di classe. Tutto indica che
l’età del benessere emotivo prepara l’espansione sociale di queste passioni più di quanto
favorisca il suo inaridimento.
Arcaismi?
Nonostante il capitalismo dell’iperconsumo abbia sconvolto il rapporto con se stessi, con gli altri
e con la cultura, non è riuscito a generare una umanità post-storica: seppur siano distribuite in
modo ineguale tra le persone e si presentino sotto forme completamente nuove, permangono le
volontà di conoscere, capire, progredire. A dispetto della potenza del consumerismo domani sarà
la stessa cosa e a sostegno di questa tesi mi limito a sottolineare due ragioni:
Le scienza rappresentano discipline esemplari di formazione intellettuale, un appello incassate a
capire, provare, progredire lungo la strada della verità. La scienza è inseparabile da una dinamica
di trascendenza che è sempre aperta e sempre s’interroga: irresistibilmente, cerca le
problematiche, rilancia gli interrogativi e stimola lo spirito critico. Rappresenta, in questo modo,
una delle grandi forze del futuro che impedirà alla cultura di essere completamente fagocitata dal
regno dello spettacolo e dell’agio consumeristico. Secondariamente, è poco probabile che i
godimenti del benessere possano costituire la sola esigenza degli individui, la sola strada per la
realizzazione personale. Intraprendere, rischiare, scoprire, inventare, creare, resteranno per molte
persone i mezzi insostituibili per affermarsi, guadagnare la stima in se stessi e quella degli altri.
Per queste persone, l’identità individuale e la valorizzazione di sé continueranno a essere cercate
attraverso ciò che esige lavoro, sforzo, ricerca di superarsi, vale a dire al di là del principio del
piacere “consumatore”. Se una tendenza dell’iperindividualismo conduce a richieste di ricreazione
e di conservazione di stessi, un’altra incoraggia la costruzione meritocratica e l’espansione di sé
stessi. La verità è che la società degli iperconsumi non può esistere se la sua tendenza dominante
non si trova contrastata da principi antagonisti. Ciò che ostacola le norme degli iperconsumi deve
essere posto come il requisito del loro sviluppo. La verità è che solo interessi e passioni di un altro
genere potranno erigere dei bastoni contro lo scatenamento dell’iperconsumatività personale. On
dobbiamo tanto demonizzare l’epidemia consumeristica quanto invece cercare i mezzi che
spingerebbero le persone a orientarsi verso scopi più vari. L’esigenza del futuro sta nell’inventare
nuovi modi di istruzione e di lavoro che permettano agli individui di trovare un’identità e delle
soddisfazioni altrove, non nei paradisi passeggeri dei consumi.
DOPO L’IPERCONSUMO
Non c’è una soluzione che consenta di sostituire la fase III. Con il capitalismo dei consumi,
l’edonismo si è imposto come un valore supremo e le soddisfazioni commerciali come la corsia
preferenziale della felicità. Fintantoché la cultura della vita quotidiana sarà dominata da questo
sistema di riferimento, salvo che si verifichi un cataclisma, la società degli iperconsumi continuerà
la sua corse senza freni. Nel momento cui nasceranno nuovi modi di valutare i godimenti materiali
e i piaceri immediati, in cui s’imporrà un altro modo di concepire i sistemi d’istruzione, la società
degli iperconsumi lascerà il posto a un altro tipo di cultura. Quando la felicità sarà meno
identificata con la soddisfazione dei bisogni, allora il ciclo dell’iperconsumo sarà chiuso. Verrà un
giorno in cui la ricerca della felicità nei consumi non avrà già lo stesso potere di attrazione, la
stessa positività: la ricerca della realizzazione di sé finirà per distaccarsi dalla corsa senza fine ai
piaceri consumatori. L’ora non è suonata ma quel momento arriverà. Un capovolgimento della
gerarchia dei valori che non annuncerebbe il regno del Superuomo ma, in modo definito, quello
delle democrazie post consumeriste, in cui l’edonismo non rappresenterebbe più il principio
portante o strutturante della vita. In quel momento, acquistare e rinnovare le merci non sarà più
considerato la corsia preferenziale verso la felicità. Homo Consomator non sarà estinto, perderà
solamente il suo immaginario opulento e la sua centralità trionfante. Per gli antropologi del futuro
saremo visti come un Homo Sapiens che venerava un Dio irrisorio e affascinate: la merce.
tutto deve essere rifiutato, molto deve essere rivisitato e riequilibrato al fine che l’ambito
tentacolare dell’iperconsumo non oscuri la molteplicità degli orizzonti della vita.In questo campo “i
giochi non sono fatti”, tutto è da inventare e da costruire senza un modello garantito. La conquista
della felicità non può avere scadenze. Ciò che è vero per la società lo è anche per l’individuo:
l’uomo cammina verso un orizzonte che si dissolve man mano che crede di avvicinarlo, poiché
qualunque soluzione porta con sé nuovi dilemmi. Ogni volta la felicità è da re-inventare e nessuno
possiede le chiavi che aprano le porte della Terra promessa: sappiamo solo navigare a vista e
corregge la rotta di volta in volta, con maggiore o minore successo. Lottiamo per una società e
una vita migliore, cerchiamo instancabilmente le strade che conducono alla felicità ma come
possiamo ignorare che ciò che abbiamo di più prezioso, la gioia di vivere, ci sarà sempre regalata
in più.
PER STUDIARE:
-Rileggere e fare chiarezza Capitolo 11
-Integrare con appunti presi in classe
-Organizzare discorso per esame orale
-Integrare in penna alcuni punti
-Evoluzione di tutti Homo..
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