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Una Felicita Paradossale Gilles Lipovetsky

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Una felicità paradossale - Gilles Lipovetsky

Sociologia dei processi culturali e comunicativi (Università degli Studi di Trento)

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Una Felicità Paradossale


Sulla società dell’Iperconsumo
Gilles Lipovetsky

Parte Prima / La società dell’iperconsumo


INTRODUZIONE
L’espressione “Società dei consumi” diventa popolare negli anni 50 e 60, la sua fortuna è ad oggi
immutata, come prova il suo ampio uso nel linguaggio comune. All’inizio degli anni 90 però, alcuni
osservatori segnalano dei cambiamenti significativi nei contesti democratici dell’abbondanza in
crisi: perdita dell’appetito per il consumo, disaffezione per le marche, controllo dei prezzi e calo
degli acquisti impulsivi. La prima considerazione, ha annunciato l’avvento di una società di tipo
nuovo: quella organizzata in reti e quella del capitalismo informatico che sostituisca il capitalismo
dei consumi. La seconda si è basata sui ambienti di atteggiamenti e di assegnazione di valori dei
quali le nostre società sono testimoni. La nostra epoca darebbe la priorità alla qualità della vita.
Da un sistema culturale essenzialmente materialistico. Noi saremmo passati ad una visione del
mondo “postmaterialistica”. Da più di una ventina d’anni, le democrazie sono scivolate in una
nuova era di mercantilismo degli stili di vita, con pratiche di consumo che esprimono un nuovo
rapporto con le cose, il prossimo e se stessi. È un consumatore del “terzo tipo” che passeggia nei
centri commerciali, acquista marche mondiale, ricerca prodotti Bio, esige marchi di qualità, naviga
in rete, scarica musica sul cellulare. Il dopo-società dei consumi di massa deve essere visto solo
come una sorta d’interruzione di continuità, un “aggiustamento” su una base di permanenza. Il
sistema postfordista che si impone si coniuga con profondi rivolgimenti nei modi di stimolare la
domande, nelle formule di vendita. Le industrie mettono in atto logiche di opzione, strategie di
personalizzazione dei prodotti e dei prezzi. Tutti questi cambiamenti, però, non fanno altro che
ampliare la commercializzazione degli stili di vita, alimentare ulteriormente la frenesia per i bisogni,
alzare di una tacca la logica del “sempre di più, sempre nuovo”. La nuova società che albeggia si
nutre di iperconsumo, non di “de-consumo”.

1) LE TRE ETÀ DEL CAPITALISMO DEI CONSUMI


É possibile proporre un suo schema di evoluzione fondato sulla distinzione di tre grandi fasi:
1. LA NASCITA DEI MERCATI DI MASSA
Produzione e Marketing di massa
Il ciclo I del consumo di massa comincia intorno agli anni 80 dell’800 e si chiude con la Seconda
guerra mondiale. È una fase che vede la nascita dei grandi mercati nazionali. Migliorando la
regolarità, aumentando il volume e la rapidità dei trasporti verso le fabbriche e le città, le reti
ferroviarie hanno permesso l’espansione del commercio su vasta scala. Questa fase coincide con
la messa a punto di macchine a ciclo continuo che, aumentando la rapidità e la quantità del flusso
dei prodotti, hanno comportato un incremento della produzione a costi più bassi: di fatto hanno
aperto la strada alla produzione di massa. Le tecniche di fabbricazione a ciclo continuo hanno
così permesso di produrre in grande serie delle merci standardizzate che, imballate in piccole
quantità e con un nome di marca, hanno potuto essere distribuite su scala nazionale a un prezzo
unitario modesto. L’espansione della produzione è stimolata dalla ristrutturazione delle fabbriche
secondo i principi della “organizzazione scientifica del lavoro”, principi che trovano la loro più
vasta applicazione nel settore automobilistico. Visto che la velocità della produzione era
aumentata, era stato possibile abbassare il prezzo finale fino alla metà di quello dei concorrenti
più prossimi, e dunque le auto a prezzi moderati conoscono un impulso considerevole delle
vendite. Il capitalismo dei consumi è anche un costrutto culturale e sociale che ha richiesto
“l’educazione” del consumatore”. Alla base dell’economia dei consumi sta una nuova filosofia
commerciale: vendere la maggior quantità possibile di prodotti con un margine di guadagno
ristretto piuttosto che una piccola quantità con un largo margine; il profitto grazie al calo del
prezzo di vendita anziché al suo aumento. Si cerca di mettere i prodotti alla portata delle masse.
Questa è la fase I, dove un insieme di prodotti durevoli o non durevoli è diventato accessibile ad
un numero maggiore di persone. Questo processo rimane entro certi limiti poiché la maggioranza
dei nuclei familiari popolari ha risorse troppo modeste per potersi permettere le apparecchiature
moderne. La fase I ha generato un consumo di massa incompiuto, a preponderanza borghese.

Tripla invenzione: marca, packaging e pubblicità


Sviluppando la produzione di massa, questa fase ha inventato il marketing di massa e il
consumatore moderno. Fino agli anni 80 del 1800, le marche nazionali erano poche. Con lo scopo
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di controllare il flusso della produzione e di rendere redditizi i loro macchinari, le nuove industrie
hanno confezionato direttamente i loro prodotti, pubblicizzando il loro marchio su scala nazionale.
Per la prima volta, le imprese investono nella pubblicità enormi somme. I prodotti, avvolti in piccoli
imballaggi e distribuiti sui mercati nazionali, avranno un nome, quello attribuito dal fabbricante: la
marca. Con la fase I nascono moltissime marche celebri come la Coca Cola o la Kodak. Questa
nascita ha trasformato il rapporto fra il consumatore e il dettagliante perché ora l’acquirente non
fa più riferimento su di lui, ma solamente sulla marca, che da garanzia e qualità. C’è quindi una
trasformazione dal cliente tradizionale a quello moderno, nato anche dalla tripla invenzione di
marca, packaging e pubblicità, che acquista una firma al posto di una cosa.

I grandi magazzini
Nello stesso periodo nascono anche i primi grandi magazzini. Essi si basano su nuove politiche di
vendita aggressive e seducenti, il grande magazzino rappresenta la prima rivoluzione
commerciale moderna che inaugura l’era della distribuzione di massa. Essi si basano sulla rapida
rotazione degli stock e su una politica di prezzi bassi. L’elemento importante è diventata la
rapidità di smercio della massima quantità di prodotti ma con un margine di profitto più modesto.
La gamma dei prodotti esposti si è ampliata e grazie alla politica di vendita a buon mercato, ha
trasformato quei beni che una volta erano privilegio di élite in articoli di consumo destinati alla
borghesia. Viene innescato il processo di “democratizzazione del desiderio”, dove i grandi
magazzini vengono trasformati in castelli dei sogni. Tutto è predisposto per abbagliare, per creare
un clima di stimolo. Non vende solo prodotti ma colpisce l’immaginazione e suscita desiderio,
presenta l’acquisto come un piacere. Mentre essi lavoravano per decolpevolizzare l’atto
dell’acquisto, lo shopping e il guardare le vetrine diventavano un modo di passare il tempo. La
fase I ha inventato il consumo-distrazione dei quali siamo fedeli eredi.

2. LA SOCIETÀ DEL CONSUMO DI MASSA


L’economia Fordista
La fase II inizia intorno al 1950, è contraddistinta da un’eccezionale crescita economica, e da un
più alto livello di produttività del lavoro. Si identifica come “Società dell’abbondanza”. Triplicando
il potere d’acquisto delle retribuzioni, questa fase si presenta come il modello per la società dei
consumi di massa. La nuova fase ha messo a disposizione quasi tutti i prodotti emblema del
benessere: auto, tv, elettrodomestici. Questo periodo vede l’aumento dei livelli di consumo (Es. in
Francia si spende di più per i beni durevoli che per l’alimentazione). Grazie all’aumento del potere
d’acquisto, la massa può accedere ad uno stile di vita (moda, vacanze, beni durevoli) che nel
passato era associato alle élite sociali. La società dei consumi è sbocciata grazie alla diffusione
del modello Taylor-Ford d’organizzazione della produzione che ha consentito un incremento della
produttività e delle retribuzioni. Nelle fabbriche, standardizzazione, incremento del volume di
produzione diventano le parole chiavi. La fase II è dominata dalla “logica della quantità” grazie
anche all’automatizzazione e alle catene di montaggio che permettono di fabbricare enormi
quantità di prodotti stand. Anche la grande distribuzione si ristruttura: i prezzi scendono per un
margine modesto, ottenuto anche dalla rotazione rapida delle merci. Con la diffusione del self-
service si cerca di stracciare i prezzi, vendere prodotti meno cari dei meno cari. Nel corso di
questa fase nascono politiche di diversificazione dei prodotti e quei processi che mirano ad
abbreviare la vita delle merci a farle passare di moda con il rinnovamento rapido, il cosiddetto
“complotto della moda”. Si avvia un ciclo intermedio e ibrido, che racchiude la logica Fordista e la
logica-moda.
Una nuova salvezza
Durante la fase II, si costruisce la “Società dei consumi di massa”. È una società dove la crescita,
il miglioramento delle condizioni di vita, diventano criteri del progresso. Tutta una società si
mobilità per un progetto volto alla gestione di una vita facile e confortevole, felice. È dominata da
una logica che verte più sulla quantità che sulla qualità. C’è l’atmosfera di stimolo dei desideri,
l’euforia pubblicitaria, l’immagine del lusso vacanziero, la sessualizzazione dei simboli e dei corpi.
È una fase chiamata anche “Società del desiderio” in cui il quotidiano è imbevuto di immaginario
della felicità consumatrice. Si verifica una profonda mutazione culturale grazie a una visione del
futuro spensierata. Questa società ha creato l’invidia cronica per i beni commerciali, il virus
dell’acquisto, la passione per il nuovo. Ha provocato un’oscillazione del tempo che spinge
dall’orientamento futurista alla vita al presente e alle sue soddisfazioni immediate.

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2) AL DI LÀ DELLO STANDING: I CONSUMI EMOTIVI


Man mano che le nostre società si arricchiscono sorgono incessantemente nuovi desideri di
consumare. Più si consuma e più si vuole consumare. I sociologi critici si sono impegnati per
scoprire le cause di questo fenomeno, interpretando il consumo come una logica di
differenziazione sociale. I consumi della fase II sono definiti come un ambito di simboli distintivi,
con i protagonisti che, più di voler godere di un valore d’uso, desiderano sbandierare un rango,
classificare in una gerarchia. La corsa ai beni commerciali ha l’obiettivo di appropriarsi di segni
differenziali. Vediamo però che la realtà non è proprio questa.

DAL CONSUMO OSTENTATO AL CONSUMO ESPERIENZIALE


I sociologi dimostrarono subito di aver mancato il bersaglio. Dichter notava che lo status era
diventato una motivazione secondaria nell’acquisto di una vettura. La verità è che l’accesso ad
uno stile di vita già facile e confortevole, più libero ed edonistico, costituiva già una forte
motivazione per i consumatori. Esaltando gli ideali della felicità, la pubblicità e i media hanno
favorito comportamenti di consumo che attribuivano meno importanza al giudizio degli altri. Lo
scopo era vivere meglio, godere dei piaceri della vita e non farsi mancare nulla. Il culto del
benessere di massa della fase II ha cominciato a minare la logica delle spese come obiettivo di
considerazione sociale e a promuovere un modello di consumo individualistico. Rimane
comunque vero che i consumi hanno mantenuto un forte potenziale di prestigio e gli oggetti non
hanno smesso di essere valorizzati come segni di riuscita e integrazione sociale. Si è fieri di
ostentare gli oggetti come emblemi di standing e, la pubblicità, si dedica a vantare i prodotti come
simboli di rango sociale. Prolungando il regime delle spese dedicate all’ostentazione, la fase II ha
fatto assurgere l’edonismo a legittima finalità di massa.

Una nuova salvezza


Il processo di riduzione delle spese per attirarsi stima ha raggiunto una tale dimensione che si è
portati a vedere la nascita di una nuova fase storica dei consumi. Sono nate nuove aspirazioni e
nuovi comportamenti: i consumatori si dimostrano più imprevedibili e volubili, più a cacca di
qualità di vita, di comunicazione e salute, più in grado di operare una scelta fra le diverse
proposte dell’offerta. Eccoci quindi in nella nuova fase III, la fase della commercializzazione
moderna dei bisogni, orchestrata da una logica soggettiva ed emotiva. La cosiddetta:

3. LA SOCIETÀ DELL’IPERCONSUMO
Vogliamo più oggetti “da vivere” che da esibire, si acquista una cosa non tanto per sbandierarla
ma per soddisfazione emotiva o fisica, sensoriale o estetica, inerente a relazioni o salute, al gioco
o alla distrazione. Dalle cose non ci aspettiamo che ci classifichino agli occhi degli altri ma
piuttosto che ci permettano di essere più indipendenti, di vivere sensazioni ed esperienze, di
migliorare la nostra qualità di vita, di conservare giovinezza e salute. Il consumo “per se stessi” ha
scalzato quello “per il prossimo”. Nel momento in cui le lotte concorrenziali non sono più la chiave
dell’acquisizione dei beni, la civiltà dell’iperconsumo prende vita. L’epoca dell’ostentazione è stata
quindi sostituita dal regno dell’iper-merce deconflittualizzata e postconformista. L’apogeo delle
merci non è rappresentato dal valore differenziale ma quindi dal valore esperienzale. Oggi, il gusto
del cambiamento incessante nei consumi non conosce più limiti sociali ed è diffusa in tutti i ceti,
in secondo luogo, desideriamo le novità commerciali di per se stesse, per i vantaggi emotivi che
ci procurano. La curiosità è diventata una passione di massa e il cambiamento per il piacere di
cambiare è diventato un’esperienza volta al mettersi alla prova. In un’epoca dove le tradizioni, la
religione e la politica hanno perso un pò della loro veste d’identità, i consumi assumono sempre di
più un nuovo ruolo correlato all’identità individuale. L’Homo Consumericus cerca di dare una
risposta alla domanda: chi sono? Il consumo emotivo è un’ottica definita come marketing
sensoriale, non ci si può più accontentare della fredda funzionalità, si punta ad una sollecitazione
sensoriale ed emotiva. A differenza del marketing tradizione che voleva mettere in luce la
funzionalità dei prodotti, un certo numero di marche oggi gioca la carta del sensoriale e
dell’affettivo delle radici e della nostalgia. Alcuno negozi sollecitano i sensi con un sottofondo di
musica, profumi e scenografie. Questo marketing cerca di migliorare le qualità dei prodotti e delle
aree di vendita in modo che sollecitino i cinque sensi. Si cerca di promettere un’avventura
sensoriale ed emotiva. La fase III esprime la nuova relazione emotiva dell’individuo con i prodotti
che detengano il primato del percepito , che rappresentino i cambiamenti di significato sociale e

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individuale dell’universo del consumo “consumatore” che accompagna la crescita


dell’individualizzazione delle nostre società.

PASSIONE PER LE MARCHE E CONSUMI DEMOCRATICI


Ci si chiede allora se il consumo emotivo indichi la vittoria dell’essere sull’apparire. Come si può
parlare di decadenza delle apparenze quando la nostra epoca vede il trionfo delle marche e delle
loro immagini? Man mano che il consumatore si dimostra sempre meno ossessionato
dall’immagine di se stesso che mostra agli altri, le sue decisioni di acquisto sono sempre più
debitrici alla dimensione immaginaria delle marche. L’evoluzione della pubblicità ne dà un
esempio illuminante. Essa è passata dalla comunicazione intorno ad un prodotto e ai suoi
vantaggi, a campagna che enfatizzano dei valori e offrono un’immagine che pone l’accento sulla
spettacolarità e l’emozione. Nei mercati di grande consumo è l’apparire, l’immagine creativa della
marca, che fa la differenza, seduce e fa vendere. È in questo modo che alcune marche sono
riuscite a conquistare notorietà a livello mondiale, parlando di tutto eccetto del loro prodotto.
Nome, logo, design, slogan, ecc, deve essere rivisto nel suo look al fine di ringiovanire e dare
un’anima o uno stile alla marca. Non si vede più un prodotto ma una visione. L’imperativo
dell’immagine è passato dalla sfera sociale a quella del marketing: oggi ciò che importa non è più
l’immagine sociale e il “mi hai visto” che l’accompagna, ma è l’immaginario della marca; nei
consumi, meno pesa il valore di status e più cresce il potere orientativo del valore immateriale
delle marche.
Feticismo delle marche, lusso e individualismo
Come conciliare lo slancio del consumo emotivo con il gusto per le marche? Sempre di più si
acquista una marca e non un prodotto. Il gusto di classificarsi non è scomparso ma non è tanto il
desiderio di riconoscimento sociale che sta alla base dello stimolo di acquisto verso le marche,
quanto il pacere narcisistico di percepire una distanza con la maggior parte della gente,
beneficiando di un’immagine positiva di se stessi per se stessi. Ciò che importa non è imporre il
proprio valore agli altri ma confermarlo ai nostri occhi, citando Veblen “l’essere soddisfatti di
sè” (Es. L’Oreal, perché io valgo”. Il culto per le marche è espresso da un nuovo rapporto con il
lusso, al superfluo, alle marche di qualità. Tutti reputano di aver diritto all’eccellenza e aspirano a
vivere meglio in condizioni migliori. È così che i prodotti di qualità sono privilegiati nei confronti
della quantità e dei prodotti di necessità. È una valorizzazione che, del resto, non genera alcun
atteggiamento sistematico, non c’è più vergogna a spendere per qualcosa e risparmiare per
qualcos’altro. L’obbligo di spendere ai fini di un’immagine non è più pressante per una
sollecitazione sociale, ma in funzione del momento, del piacere che se ne trae.
Iperconsumo e ansia
In epoche precedenti esistevano canoni di socializzazione, norme e riferimenti collettivi, che
distinguevano l’alto e il basso, il buono e il cattivo gusto, etc. Questo ordine gerarchico si è
sgretolato. Meno gli stili di vita sono regolati dall’ordine sociale e dai sentimenti di appartenenza
di classe e più si impongono la potenza del mercato e la logica delle marche. Quando le regole
del buon gusto non sono più chiare, la marca permette di rassicurare l’acquirente; quando si
moltiplicano i timori verso gli alimenti, vengono privilegiati i prodotti con l’etichetta “bio”. L’ansia è
anche alla base del nuovo gusto che i giovani adolescenti nutrono per le marche. La ragione per
scegliere la marca è correlata alla cultura democratica. Sfoggiare un logo per un giovane non
significa volersi porre al di sopra degli altri ma piuttosto non apparire “da meno”. Grazie a una
marca, il giovane esce dall’anonimato: non vuole dimostrare una superiorità sociale ma la sua
partecipazione completa e paritetica ai giochi della moda e del consumo. La nuova ossessione
per le marche è scatenata dalla paura del disprezzo e del rifiuto doloroso da parte degli altri. Si
parla di individualismo anche perché, l’adolescente, comprando quella marca opera una scelta
che lo distingue dai suoi genitori, si appropria di un codice. L’acquisto di una marca è vissuto
come l’espressione di una identità che è del clan e del singolo. Mostrandola in pubblico,
l’adolescente si riconosce in questa marca e ne fa una delle bandiere della sua personalità. La
marca esibita rivela un’appropriazione personale, una ricerca di individualità e un desiderio di
integrazione in un gruppo di propri pari.

PASSIONE PER LE MARCHE E CONSUMI DEMOCRATICI


Mentre l’universo consumatore tende a liberarsi dei conflitti simbolici, cresce un nuovo
immaginario associato al potere su se stessi, alla padronanza individuale delle condizioni di vita:
nel cuore dell’iperconsumatore alberga una sorta di volontà di potenza e il godimento che esse
induce nell’essere attore di un dominio sul mondo e su stessi. Nella fase III, i consumi funzionano
come mezzo di appropriazione personale del quotidiano: non sono più teatri di segni distintivi,
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bensì tecnologia di autonomizzazione degli individui nei confronti delle costrizioni del gruppo. È
nel momento del trionfo della volontà di potere sulla gestione delle nostre vite che gli oggetti
tecnici che simboleggiano la potenza virile tendono a perdere il loro aspetto aggressivo. Ne sono
prova le nuove forme rotonde delle auto che valorizzano le dimensioni di abitabilità e comfort.
La medicalizzazione dei consumi
La salute diventa un obiettivo primario. La società degli iperconsumi è quella in cui le spese
sanitarie aumentano a vista d’occhio. Homo Consumericus è sempre più prossimo a diventare
Homo Sanitas: visite, farmaci trattamenti danno vita a un processo di infatuazione per la salute.
Non si consumano più farmaci, ma anche trasmissioni radiotelevisive, stampa, pagine internet. La
salute assurge a valore primario, non basta più guarire le malattie, bisogna anticipare il futuro. La
fase III si annuncia come l’era della medicalizzazione della vita e dei consumi. C’è una spirale
crescente di comportamenti preventivi. L’iperconsumo sanitario costituisce la punta estrema della
tendenza alla de-simbolizzazione che opera nella fase III: qui rimane solo la ricerca
dell’ottimizzazione della salute grazie all’auto-sorveglianza e alle pratiche tecnico scientifiche. C’è
una ri-drammatizzazione del rapporto con i consumi. In nome del culto della salute, è sempre più
necessario informarsi. L’epoca felice delle merci generica è finita: arriva il tempo dei prodotti
preventivi investiti di preoccupazioni e dubbi. Ormai la sensazione di pericolo e rischio è
onnipresente, fino ad essere percepita come minacciosa e a richiamare alla vigilanza. Nella fase
III, l’insicurezza e l’ansia quotidiana crescono proporzionalmente alla nostra potenza nel
combattere la fatalità e nell’allungare la durata della vita.
Il corpo: controllo e “delega”
Dopo la frenesia dello standing, ora cresce l’ossessione per la salute, la nostra maggiore
indipendenza nei confronti dell’apparenza sociale ha, come contropartita, l’intensificazione della
forza delle norme e della perizia medica. Il neo-consumatore non cerca più la visibilità sociale, ma
un maggiore controllo sul suo corpo grazie alle tecnologie mediche. Egli decide di farsi visitare e
di curarsi ma la sua autonomia finisce qui. Da una parte, l’efficacia della medicina dà all’uomo
maggiore potere sulla sua vita, dall’altra crea un “consumatore senza potere” che si affida a terzi.
Oggi, il corpo è considerato come una cosa da correggere, una sorta di oggetto a disposizione
del soggetto. La gente poi, vuole scegliere i propri umore, controllare i rischi emotivi con gli
psicofarmaci. Man mano che si afferma il principio di una sovranità personale sul corpo,
l’individuo delega il suo destino agli effetti di sostanze chimiche che modificano il suo stato
psicologico dall’esterno senza alcun lavoro analitico personale, contando solo sull’eliminazione
immediata dei sintomi sgradevoli. Se da una parte, l’abuso di psicofarmaci testimonia il desiderio
individualistico del controllo del corpo, dall’altra illustra un’impotenza soggettiva, con l’individuo
che rinuncia a qualunque sforzo personale arrendendosi ai prodotti chimici che agiscono su di lui,
ma senza di lui. L’individuo si trasforma in un individuo “dipendente”
Un ipermaterialismo medicale
In una società di iperconsumi, la soluzione ai nostri mali e la ricerca della felicità sono posti sotto
l’intervento tecnico, del farmaco. Questo non significa abbandono totale di approcci
psicoterapeutici, ma è giocoforza constatate che la farmacia della felicità tende a ridurre la loro
antica centralità. Ricorriamo sempre di più però, a cure mediche ed altre pillole della felicità. È il
corpo nella sua fisicità a essere ambiante curato e questa dinamica si affermerà ulteriormente in
futuro. La fase III è caratterizzata dall’iperconsumo “attivo” solo nella misura in cui è
ipermaterialista. Tutte le considerazioni che autorizzano a dare un’interpretazione della spirale dei
bisogni abbastanza lontana da quella proposta dalla sociologia della distinzione.

3) CONSUMI, TEMPO E GIOCO


“Soffro, dunque compro”: più l’individuo è isolato e frustrato, più cerca consolazioni nelle felicità
immediate del consumo. Più soffriamo di carenze affettive e più acquistiamo, lo shopping ci
permette di colmare un vuoto, riduce il profondo malessere di cui siamo preda. Nella fase III, i
consumi non possono essere considerati esclusivamente come una manifestazione sfalsata del
desiderio o un diversivo: se sono una forma di consolazione, sono anche agenti di esperienze
emotive che hanno valore di per se stesse. Baudrillard afferma che “Il consumo si definisce come
preclusione del godimento. Come logica sociale, il sistema del consumo si instaura sulla base di
una negazione del godimento”. Si deve riaprire il pascolo di Homo Consumans.

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IL CONSUMO COME VIAGGIO E DIVERTIMENTO


Edonismo, tempo libero ed economia esperienziale
È risaputo che le spese riconducibili al settore degli svaghi, della cultura e comunicazione,
occupano un posto sempre più importante nei bilanci familiari e aumentano più rapidamente della
media dei consumi. Aumenta incessantemente il tempo dedicato alla musica e alla tv (Es. I
francesi passano sempre più ore davanti ai mezzi audiovisivi, una media di 43 ore settimanali). Si
consumano profusione di fiction e di giochi, musica e viaggi. Il turismo è diventato la prima
industria mondiale. Questa preponderanza del ruolo degli svaghi ha spinto alcuni analisti a parlare
di un nuovo capitalismo non più imperniato su di una produzione materiale, ma sul divertimento e
beni economici culturali. Negli USA, le industrie culturali sono diventate il primo articolo
d’esportazione. In parallelo all’aumento delle spese di bilancio e del tempo consacrati agli svaghi,
il marketing fornisce sempre più un’impronta esperienziale all’offerta edonistica. La fase III
corrisponde a una proliferazione di parchi di divertimenti. Si sviluppano offerte di week-end ed
evasioni insolite: notti da trascorrere in un globo, acrobazie in auto, guida di carri armati, viaggi in
mongolfiera. Le industrie del divertimento oggi agiscono sulla dimensione partecipativa e affettiva
dei consumi, moltiplicando le occasioni di vivere esperienze dirette. Non è più solo una questione
di vendere servizi, bisogna offrire del vissuto, qualcosa di inatteso che sia in grado di generare
emozioni e sensazioni. Grazie alla fase III, la civiltà dell’oggetto è stata sostituita da una economia
esperienziale, quella degli svaghi e dello spettacolo, del gioco, del turismo e della distrazione. È in
questo contesto che l’iperconsumatore non cerca tanto il possesso delle cose ma piuttosto la
moltiplicazione delle esperienze, il piacere dell’esperienza per l’esperienza. Il turismo organizzato
è uno dei tanti elementi che fanno parte integrante dell’industria dell’esperienza. Altri creano
indoor zone climatiche, foreste, eruzioni, ambienti marini. Siamo scivolati in un’industria
dell’esperienza che si concretizza in un’orgia di simulazioni, di stimolazioni sensoriali destinate a
far provare all’individuo sensazioni più o meno straordinarie. L’iperconsumatore è colui il quale
aspetta l’inatteso in ambienti commerciali programmati. Vuole annegarsi in un flusso di
sensazioni, eccezionali, evolvendosi in uno spazio teatralizzato, senza rischi e scomodità. Una
ricreazione inebriante dove si è portati a credere che il falso è diventato vero e che l’altrove è qui.
Da una parte l’iperconsumatore ha bisogno di spettacoli eccessivi, dall’altra vuole un mondo
intimo e vero che gli assomigli. Si dedica a gestire i suoi svaghi in modo individualizzato. Yonnet
contesta la definizione del tempo libero, ponendo l’accento sul criterio edonistico. È altrettanto
vero che certe persone si annoino più durante il tempo dello svago che durante l’attività
lavorativa. La maggior parte della gente associa il tempo libero al piacere-abbandono e il lavoro a
un obbligo decisamente più tedioso.
L’acquisto-piacere
Oggi, anche il consumo dei beni materiali tende a scivolare in una logica esperienziale e lo
shopping è imbevuto di un’atmosfera edonistica e ricreativa. Per questo motivo, nel momento in
cui i centri commerciali sono il polo di attrazione dei visitatori, la motivazione più frequente è il
bisogno di distrazione. La pratica del consumo, concepito come uno stile di vita e fonte di
piacere, nasce con i grandi magazzini. La società degli iperconsumi è quella in cui il consumo si
scompone su due direttrici antitetiche: una, l’acquisto corvée o acquisto pratico, la seconda,
l’acquisto edonistico o acquisto celebrazione. Si è spesso sottolineato come la pubblicità
erotizzasse i prodotti, creasse un’atmosfera gioiosa. È sempre così ma l’attenzione è ora rivolta al
marketing esperienziale con lo scopo di creare un’atmosfera di desiderio. Con il fun shopping, i
centri commerciali propongono di ridonare fascino ai gesti e ai luoghi dove si acquista,
trasformare le aree tempo obbligato in aree di piacere. C’è un legame intimo, strutturale, tra
iperconsumo ed edonismo, e siffatto legame è costituito dal cambiamento e dalla novità elevati a
principio generalizzato sia dall’economia materiale sia di quella psichica.
La febbre del cambiamento perpetuo
Una delle caratteristiche principali dei beni di consumo delle nostre società è costituita dal fatto
che cambiano e che vengono cambiati indefinitamente; l’offerta non smette di innovarsi, di
proporre nuovi prodotti e servizi. Qual è l’elemento di seduzione nell’atto d’acquisto di prodotti di
“non ordinaria amministrazione” se non, almeno in parte, l’emozione nuova che accompagna il
possesso di una cosa? Vale anche per le vacanze, per il turista la cosa più importante è partire,
cambiare aria. Nella fase III, l’acquirente esalta certamente il valore funzionale del prodotto ma si
rivela sempre più alla ricerca di piaceri rinnovati. Sono sensazioni ad essere vendute ed è
l’esperienza ad essere acquistata. Il consumatore infatti è un collezionista di esperienze. I
consumi sono diventati un viaggio. Il consumo tende a diventare la sua stessa ricompensa. Oggi
più che mai, in Homo Consumans c’è Homo Ludens, con il piacere del consumatore che si
avvicina a quello indotto dalle attività di gioco.
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I CONSUMI, L’INFANZIA E IL TEMPO


Ringiovanire il vissuto
Si è sottolineato che i consumi moderni non dovessero essere analizzati come espressione
d’alienazione, ma come espressione della libertà umana e che l’incostanza che manifestiamo nei
riguardi di ciò che è commercializzato è uno dei sistemi che il soggetto utilizza per non perdersi
nell’oggetto. Bisogna interpretare l’appetito consumeresti come un modo di scongiurare la
fossilizzazione del quotidiano, di sfuggire alla ripetitività ricercando piccole novità vissute. Nel
consumatore della nuova generazione c’è ancora soggettività trascendente e il suo tropismo
rispecchia il desiderio di non essere invischiato nella consuetudine dei giorni. Il modello del neo-
consumatore non è quello dell’individuo manipolato e ipnotizzato, ma è l’individuo mobile,
orbitante che con una sorta di zapping, cambia freneticamente le cose, nella speranza, spesso
delusa, di cambiare la sua stessa vita. Il consumatore della fase III è terrorizzato
dall’invecchiamento del percepito e non cerca tanto di allontanare l’idea della morte, ma, piuttosto
di lottare contro i tempi morti della vita. L’iperconsumo ha il compito di ringiovanire il vissuto,
fornendo i mezzi per vivacizzare se stessi e le nuove esperienze: è l’edonismo del ricominciare
perpetuo che alimenta la frenesia degli acquisti. Vaneigem sosteneva che i consumi condannano
ad un invecchiamento precoce ma è più giusto dire che in essi albera il sogno di una eterna
giovinezza. L’atto del consumo mira a ri-dinamizzare il “qui e adesso”, a esorcizzare l’usura del
tempo individuale e ri-intensificare la durata. Una delle inclinazioni dell’iperconsumatore non è
tanto di porsi come un grande nei confronti degli altri ma piuttosto di tornare piccolo. Si fa strada
un nuovo mercato in cui i profumi hanno la fragranza della colla che si usava a scuola. Se i vecchi
vogliono assomigliare ai giovani, i giovani adulti rifiutano di crescere, mentre si sviluppa il mercato
del consumo regressivo. Il neo-adulto gioca a credere, a farsi credere o far credere di essere
qualcuno diverso da se stesso. Dimentica temporaneamente la sua personalità per simularne
un’altra.
Nostalgia e desiderio di futilità
In questo quadro culturale assolutamente nuovo, l’ideale della vita adulta, seria e compassata, si
eclissa in favore di modelli che legittimano le emozioni ludiche e perfino infantili. Finita l’epoca in
cui i comportamenti legati all’età sono perimetro e fissati; finita, di conseguenza, l’impazienza dei
giovani di confermarsi adulti, è diventato legittimo non volere più invecchiare, restando, a certi
libelli, un “bambinone”. Si tratta di ritrovare part-time delle sensazioni felice provate nell’infanzia.
L’iperconsumatore non acquista solo prodotti high-tech per comunicare in temo reale, ma anche
dei prodotti affettivi che facciano viaggiare nel tempo le emozioni dell’infanzia. Il consumo
nostalgico è diventato un grande mercato. Ormai, le persone cercano di ritrovare le impressioni
della loro infanzia attraverso le offerte del mercato. È proprio quando gli uomini diventano
responsabili del loro mondo nella sua totalità che, paradossalmente, si divertono a “fare il
bambino”. Più aumentano le responsabilità di se stessi e le preoccupazioni, più si afferma il
bisogno di vuota leggerezza, di abbandono vicino allo sforzo zero di spensieratezza futile. Non c’è
alienazione del soggetto ma l’uso della libertà per smettere di pensare, uscire da se stessi.
L’iperconsumo non funge da ripiego, è qualcosa che offre all’individuo il godimento
dell’irresponsabilità e della superficialità del gioco.

4) L’ORGANIZZAZIONE POSTFORDISTA DELL’ECONOMIA


È l’intero sistema dell’offerta ad aver cambiato volto. A livello delle imprese si sono verificati
contemporaneamente dei cambiamenti strutturali nell’approccio al mercato, nelle politiche di
offerta. C’è un altro modello di organizzazione i cui principi sono agli antipodi del sistema che
vigeva nelle fasi I e II. Segmentazione dei mercati, estrema differenziazione dei nuovi prodotti
sono tutte strategie nuove che, assentando un duro colpo al modello nordista di organizzazione
della produzione, hanno favorito l’emergenza di nuovi modelli di consumo. L’economia della
società degli iperconsumi si distingue per la “riscoperta del cliente”. Dal mercato governato
dall’offerta si è passati a quello dominato dalla domanda. La fase III è sostenuta dall’apertura
degli spazi economici che sei sviluppano grazie a una diversa scala di operazioni di fusion-
acquisizione, alla corsa alla crescita esterna. Di qui lo sviluppo di imprese gigantesche, ricche di
marche mondiale, i cui budget per la comunicazione sono dello stesso ordine di grandezza delle
spese relative alla produzione industriale. Da una parte, la società degli iperconsumi coincide con
il trionfo della varietà e del “cliente re”, dall’altra, è coeva all’unificazione mondiale dei mercati e
delle gamme di prodotti grazie allo sviluppo. Delle grandi marche che sono presenti nei cinque
continenti e contano su di un marketing globale, prodotti e slogan, logo e immaginari, gestiti con
un’ottica internazionale e più o meno adattati alle specifiche necessità locali. La fase III appare

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come il momento in cui i dispositivi postfordisti si coniugano alla terziarizzazione e


all’individualizzazione galoppante dei consumi.

L’ECONOMIA DELLA VERITÀ


Già dagli anni Venti hanno fatto la loro apparizione delle strategie di segmentazione del mercato e
di diversificazione dei prodotti. La General Motors ha così iniziato una politica industriale di
differenziazione proponendo diverse varianti di vetture secondo il principio “una vettura per
ognuno, secondo i suoi mezzi e le sue necessità”. La fare III si apre nel momento in cui i principi
fordisti, che organizzano la produzione di serie ripetitive, cominciano a mostrare la corda e
vengono rimessi in causa. Gli industriali adottano nuovi modi di stimolazione della domanda,
basati sulle segmentazione di mercati, la moltiplicazione dei modelli, la declinazione di varianti di
prodotti partendo da componenti identici. Il sistema della produzione di massa ha ceduto il passo
a una logica di proliferazione della varietà.
Gamma più ampia e produzione su misura
Nel 1970 una vettura veniva prodotta in 4 versioni e in 20 due decenni più tardi. Anche l’industria
degli orologi è esempi dell’avvento dell’economia della varietà (Es. più di 50.000 modelli della
Swatch). Il Giappone è il paese che ha portato al culmine la spirale della diversificazione dei
prodotti industriali. Il marketing di massa è stato sostituito da strategie di segmentazione, che
ampliavano continuamente la gamma di scelte e di opzioni, promuovendo serie dalla vita
commerciale più breve. Le nuove tecnologie industriali hanno permesso lo sviluppo di una
produzione di massa su misura. Per molto tempo si è considerato il “su misura” come una nicchia
di alta gamma alla quale poteva accedere solo chi aveva molti mezzi: oggi è possibile fabbricare
prodotti su misura allo stesso costo di quelli standard. Attraverso internet, le case
automobilistiche propongono ai loro clienti di definire e personalizzare le loro auto, Nike ha
lanciato un servizio di personalizzazione delle loro scarpe. L’economia della fase III ha capovolto
la logica che, organizzano la produzione standardizzata di massa, affermava la preponderanza
dell’offerta: non si tratta più di produrre prima e vendere dopo, ma di vendere per produrre e il
consumatore finale diventa una sorta di figura che dà ordini al produttore. Questa fase appare
come un’economia dominata dalla domanda. Anche le compagne aree e quelle dei treni si sono
aperte a strategie tariffarie differenziate. Le grandi marchi non si impegnano più a sedurre tutti i
segmenti della società, ma solo categorie particolari di consumatori: al marketing di massa che
vigeva negli anni 80 dell’800 succede un marketing di segmentazione. A quest’ultimo poi,
succede una segmentazione estrema che ha come obiettivo fasce d’età sempre più suddivise,
offre prodotti e servizi mirati, sfruttando micro-mercati brevi (Es. Ingredienti pronti per la
preparazione di dolci, destinati alle donne tra i 35 e i 40 anni). Non più soltanto la seduzione con
beni di comfort: si aggiunge la logica della varietà, del rinnovamento perpetuo. È proprio il
“sistema della moda completa” che governa il funzionamento commerciale della fase III:
un’organizzazione ipermoderna.

IL RI-ORIENTAMENTO DEL MARKETING DELLA GRANDE DISTRIBUZIONE


Nella fase II la grande distribuzione si struttura sull’argomentazione “razionale” del prezzo basso
(discount) e della massima efficienza. L’obiettivo ora, non è più soltanto l’offerta dei prezzi più
bassi, ma anche la fidelizzazione del cliente, applicando strategie di rottura nei confronti del
modello fordista. Da qui nasce una diversificazione più marcata della grande distribuzione, che si
impegna a sviluppare la qualità dell’accoglienza, l’informazione sui prodotti, la ristrutturazione dei
reparti, la consegna a domicilio, le politiche di fidelizzazione. La grande distribuzione comincia a
porre in cima alla lista delle sue priorità la soddisfazione del cliente. Se la fase II è stat quella della
rivoluzione del supermercato e dell’ipermercato, la fase III è quella che vede crescere la forza dei
grandi centri commerciali specializzati che propongono, col self service, un assortimento di
prodotti meno ampio, ma più elaborato di quanto lo sia quello offerto dalle strutture non
specializzate. La loro caratteristica è di offrire una specializzazione dell’assortimento secondo un
principio di coerenza, insieme ai prodotti infatti viene venduto uno “stile di vita”. Con
l’iperconsumatore professionale e riflessivo, maggiormente sensibile ai criteri di tecnicità e alla
tematica della qualità, e anche più capace di interpretare l’informazione e di confrontare le offerte.
Alcune catene di librerie allestiscono bar, piccoli salotti che aggiungono ai luoghi di vendita una
dimensione conviviale. La logica-moda si è appropriata degli spazi vendita, trasformandoli in
luoghi di attrazione. Nella fase III, la strategia dei prezzi stracciati non corrisponde più alle
aspettative dei diversi segmenti di clientela: bisogna fare dei negozi dei luoghi di vita, adatti a
stimolare l’acquisto che dà gioia. Dopo l’ambiente minimalista delle fabbriche del vendere, oggi
l’intere è puntato sul retail-tainment (vendita e spettacolo).
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LA CORSA ALL’INNOVAZIONE
La tendenza alla personalizzazione dei prodotti scorre in una economia in cui l’innovazione
predomina sulla produzione. Nel corso dei due cicli precedenti la competitività delle imprese si
fondata sull’incremento della produttività del lavoro. Sui nuovi mercati diffusi a libello mondiale
non è più sufficiente una maggiore produttività. Il capitalismo è un sistema fondato sul
cambiamento dei metodi di produzione, sulla scoperta di nuovi oggetti di consumo e di nuovi
mercati. La creazione reale o fittizia di nuovi prodotti si impone come il nuovo imperativo
categorico dello sviluppo, uno dei suoi strumenti di marketing più potenti. Ormai alcune società
trans-nazionali, come la Ford, hanno budget per ricerca e sviluppo paragonabili a quelli di alcuni
paesi importanti, cinque miliardi di dollari. Poiché più un’azienda innova e mette sul mercato nuovi
prodotti, più diventa considerevole l’aumento del suo giro d’affari. Oggi, i settori in crescita sono
quelli in cui il ritmo di rinnovamento e produzione è più alto. Nella fase III l’innovazionismo ha
soppiantato il produttivismo ripetitivo del paradigma fordista.
L’inflazione delle novità
L’evoluzione dei ritmi e gli imperativi di innovazione sono impressionanti. Ogni anno vengono
proposti agli europei 20.000 nuovi prodotti di grande consumo con un tasso d’insuccesso del
90%. Questa febbre del rinnovamento ha notevolmente aumentato la domanda di denominazioni,
al pinto di scatenare una vera inflazione di nomi di marche: oggi ci sono quasi 900.000 marchi
depositati. Nell’abbigliamento, le due tradizionali collezioni annuali hanno ceduto il passo a dieci o
dodici collezioni. Zara rinnova i suoi prodotti ogni due settimane. Le industrie culturali
obbediscono alla stessa legge “frenetica” del nuovo e del deperibile. Si sottolineano spesso la
dominanza di un oligopolio di alcune major. Per esempio, quattro grandi gruppi producono l’85%
della musica venduta nel mondo. L’era della globalizzazione è meno modellata dai processi di
standardizzazione e di omogeneizzazione di quanto non lo sia dall’esplosione della diversità, dagli
imperativi di rapidità, dalla dinamica dei flussi ininterrotti. Al fine di minimizzare i rischi creati
dall’incertezza del successo e di rispondere a una domanda imprevedibile, le industrie culturali
non smettono di applicare un moltiplicatore alla loro offerta di prodotti. Le esigenze di guadagno
rapido, i potenti meccanismi promozionali hanno comportato una riduzione della durata della vita
dei prodotti culturali. L’offerta abbondante ha condotta all’accorciamento della vita delle opere,
alla rotazione accelerata degli stock, una sorta di cultura a flusso ininterrotto. Nella fase III la
cultura funge sempre di più da investimento finanziario che deve obbedire all’obbligo di
rendimento del capitale impiegato, un prodotto valido come gli altri o pressapoco.
L’economia della rapidità
Un gran numero di prodotti ha una durata di vita che non supera i due anni ma l’accelerazione
della obsolescenza dei prodotti è presente in tutti i settori. All’origine di questa escalation si
pongono il rinnovamento rapido dell’offerta così come le richiesta di consumi più emotivi e fugaci.
Al fine di stimolare il consumo, si cerca di produrre solo articoli di qualità scadente. Si tratta
solamente di sedurre grazie alla novità, di reagire prima dei concorrenti e di accelerare il lancio dei
prodotti riducendo i tempi di progettazione e inserimento sul mercato. Nell’era
dell’internazionalizzazione dell’economia la concorrenza sui costi non è più sufficiente; la
competitività richiede l’intensificazione della rapidità di reazione e creatività. Nel momento in cui
l’accorciamento dei tempi dei cicli di elaborazione, l’accelerazione dell’innovazione e la velocità
del rinnovamento dei prodotti diventano parametri di performance economica, si passa dalla
concorrenza all’iperconcorrenza. Questi processi di riduzione dei tempi non sono nuovi, stanno al
centro dell’organizzazione tayloriana dell’impresa, dove guadagnare tempo significa rapidità di
vendita. La sfida non sta più tanto nella produzione continua e di massa, quanto nell’assicurare
l’entrata più rapida dei prodotti sul mercato e rispondere alla domanda prima dei concorrenti.
Nelle economie postfordiste della fase III, il ruolo fondamentale spetta alla reattività e
all’innovazione rapida dei prodotti.
Crono-concorrenza
Il fattore tempo è diventato cruciale e per questo si impone il concetto di crono-concorrenza, con
questo processo, per giungere sul mercato più rapidamente, le imprese comunicano il prodotto
sempre più anticipatamente. La Smart è stata annunciata più di 4 anni prima del suo lancio.
Questa strategia mira a costruire notorietà del prodotto e della marca, a ledere le vendite dei
prodotti concorrenti, a generare desiderio, a favorire il livello delle vendite fin dal momento del
lancio. Allo stesso tempo, questo tipo di strategia accorciala durata di commercializzazione dei
prodotti della gamma e in consumatori attendono l’uscita del nuovo prodotto piuttosto che
comprare quello già presente sul mercato. Nel ciclo III l’iperconsumatore non consuma più solo
oggetti ma anche ciò che on è ancora materialmente concretizzato.

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IMMAGINE, PREZZO E QUALITÀ


L’esigenza di qualità ha radicalmente modificato l’organizzazione della produzione e dei servizi. La
fase II è stata spesso equiparata a un’economia fondata sul “complotto della moda”. Pungolati
dalla concorrenza, gli industriali si sono prefissi l’obiettivo dello “zero difetti” e di “qualità
assoluta” e ovunque si sono espresse esigenze crescenti in materia di durevolezza, sicurezza,
affidabilità dei prodotti. La qualità più che un costo appare un investimento. Si scivola nel ciclo
dell’iper-prodotto nel momento in cui gli oggetti a buon mercato riescono a raggiungere livelli
qualitativi prossimi a quelli dei prodotti di alta gamma. Lo scarto degli articoli non è più provocato
dalla mediocrità di fabbricazione, ma dall’economia della rapidità, da prodotti nuovi, più
competitivi. È qui che si vedono i limiti del principio che è a volta presentato coma verità ultima
dell’economia globalizzata: “marche, non prodotti”. Probabilmente un posizionamento strategico
simile è pertinente ai settori dell’abbigliamento dei profumi e dei cosmetici. D’ora in poi, la qualità
si impone come una condizione necessaria alla sopravvivenza sui mercati. Non è vero che “tutto è
nell’immagine”. Allo stesso tempo, la fase III registra un successo dei farmaci generici, di marche
di distributori, di negozi maxi discount, dei primi prezzi e delle compagnia low cost. La fase degli
iper-prodotti è quella in cui il discount non cessa di crescere, in cui, su certi mercati di grandi
consumi, le grandi marche si devono confrontare con una concorrenza finora sconosciuta: quella
dei prezzi sempre più bassi. È proprio la crescita della potenza delle marche e del low cost a
esprimere lo slancio dell’iperconsumo esperienziale: il neo-consumatore non vuole consumare
meno, vuole ottenere le stesse cose pagando meno, non gira le spalle alla qualità perché il
mercato offre dei prodotti che a pari qualità sono due o tre volte più economici rispetto a quelli di
marca. Non c’è vergogna a pagare di meno, l’acquisto furbo è valorizzato ed è segno di
intelligenza. Per molti consumatori, non è l’immagine del prodotto a essere importante, è prima di
tutto il prezzo e il fatto che grazie a quell’acquisto, si può vivere un’esperienza emotiva e
sensoriale. Il fenomeno del discount sta dilagando perché i bisogni e i desideri di svaghi stanno
crescendo: si risparmia sui prodotti alimentare per poter spendere in telefonia, viaggi e video. Chi
si reca nei discount non è un ipo-consumatore bensì un iper-consumatore che controlla le spese
in modo da poter accedere a piaceri diversificanti.
Iper-pubblicità e iper-marche
Ciò non significa che la corsa all’innovazione e ai nuovi lanci di prodotti possa fare a meno delle
strategie di comunicazione destinate a far vendere, costruire l’immagine di marca e ad aumentare
la notorietà. La pubblicità resta comunque insostituibile come leva di notorietà e continua a
mobilitare budget sempre più importanti sui mercati. Tra l’85 e il 98 le spese di sponsorizzazione
sono cresciute di sette volte. Ovunque, la fase III è contraddistinta dall’esplosione dei budget di
comunicazione, un imperativo dovuto all’intensificazione della concorrenza e alla similarità dei
prodotti. C’è stato un aggiornamento della pubblicità, numerose campagne pubblicitarie si
distaccano dalla valorizzazione ripetitiva del prodotto, privilegiando l’aspetto spettacolare, la
sorpresa e la seduzione. Non è più una questione di vendere il prodotto ma si vende uno stile di
vita, dei valori che scatenino emozioni. Con questa comunicazione si crea una relazione affettiva
con la marca, bisogna riuscire a far amare la marca. Alla pubblicità ripetitiva segue una pubblicità
che si appoggia alla creatività al fine di catturare l’attenzione dell’iperconsumaotre. Oggi le
pubblicità devono rinnovarsi ogni 6/8 mesi. Rapidità e varietà si impongono quindi come i nuovi
imperativi delle iper-marche. Non è un totalitarismo pubblicitario ma una iper-pubblicità
spettacolare, che gioca con se stessa e con il consumatore. Si impone una nuova era della
pubblicità che, allineandosi ai principi della moda è in sintonia con l’acquirente riflessivo che
punta all’emozione. L’epoca degli iperconsumatori coincide con il trionfo della marca come moda
e come mondo.

5) VERSO UN TURBO-CONSUMATORE
La fase III dell’economia di massa nasce nel momento in cui le famiglie raggiungono un alto grado
di comfort domestico. In Francia è solo verso la fine degli anni 70 che la vita quotidiana di tutti i
ceti sociali viene improntata alle tecnologie. Per stimolare la domanda, le industrie hanno fatto
pressione sul pluvi-comfort domestico delle famiglie. Fino a quel momento prevaleva una logica di
consumo “semi-collettivo”, fondata sul corrugamento della casa: telefono, tv, auto per nucleo
familiare. La fase III si è liberata di questa logica con un consumo sempre più incentrato sul
comfort dei singoli componenti di una stessa famiglia. Il pluri-comfort diviene la regola, questo
permette l’allentamento dei controlli familiari, una maggiore indipendenza dei giovani, sempre più
sovranità su se stessi.

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I CONSUMI DISCREZIONALI DI MASSA


Il consumo individuale ha iniziato la sua carriera negli anni 50-60. Non è il pluri-comfort delle
famiglie che ha fatto nascere il “consumatore individualista”, bensì un insieme di fattori, come la
diffusione dei prodotto (auto, tv, ecc), lo sviluppo delle industrie culturali, la nuova classe
adolescente, il culto del godimento privato, delle novità e degli svaghi: tutti fenomeni della fase II.
Con l’economia di consumo di massa e l’innalzamento del livello di vita che segnano il “boom
economico”, è la maggioranza a disporre di un potere d’acquisto discrezionale, di un guadagno
che supera il minimo richiesto per sopperire alle strette necessità. Acquistare ciò che fa piacere e
non solamente ciò che serve ormai non è solo per i privilegiati, diventa valevole anche per le
masse. Con la “Società del benessere” che i consumi sono entrati nell’età dell’individualizzazione
e psicologizzazione di massa. Si è prodotta una “quasi mutazione antropologica del rapporto
salariale” dato che l’operaio accede a un nuovo registro dell’esistenza, quello dei consumi e del
desiderio. Il superfluo, la moda, gli svaghi e le vacanze sono diventati desideri legittimi in tutti i
ceti sociali: favorendo la privatizzazione della vita farà furore il gusto per i beni durevoli. Non è
negli anni 80, ma circa un ventennio prima che l’universo dei consumi ha cominciato a essere
rimodellato su vasta scala, sotto il segno dell’individuo.
La rivoluzione del self-service
Nella fase II altri fattori, diversi da quelli discrezionali, hanno contribuito a creare un cosmo
individualista di consumi. Impegnandosi a offrire un ampio spettro di prodotti di grande consumo
a prezzi bassi, tutti concentrati nello stesso luogo, la grande distribuzione ha inventato una
tecnica di vendita rivoluzionaria: il self-service. Con questo stratagemma, il processo di
spersonalizzazione della relazione commerciale, innescato dai grandi ragazzini attraverso il prezzo
fisso etichettato, supera una nuova tappa, poiché il contatto tra offerta e domanda è diretto,
senza più mediazione del venditore. È una logica di autonomia per il consumatore, è lasciato a se
stesso, libero di scegliere cosa comprare senza subire pressioni: non gli si vende più qualcosa, è
lui che compra. Con il self-service la grande distribuzione ha messo in atto una nuova strategia,
esercita una seduzione non più fondata sulla scenografia fiabesca dei prodotti e del luogo di
vendita, ma sull’autonomia del consumatore. Grazie al self service, la grande distribuzione ha reso
possibili degli atteggiamenti e un immaginario di libertà individuale.
L’edonismo “consumatore”
La società dell’oggetto si presenta come civiltà del desiderio che dedica un culto al benessere
materiale e ai piaceri immediati. Tutto si vende con la promessa della felicità individuale. La qualità
della vita e il godere del comfort appaiono come diritti che spettano all’individuo. Questa è la
società dei consumi, la cui ambizione dichiarata è di liberalizzare il principio del godimento, di
sottrarre l’uomo a un intero passato di penuria, inibizione e ascetismo. La fase II corrisponde al
lancio in orbita di un individualismo di massa, edonista e consumeristico. Un edonismo
individualistico che si è concretizzato in nuove abitudini consumistiche. L’individuo consumatore
ha un forte incremento delle spese per il tempo libero, passione per le vacanze, crescita degli
acquisti impulsivi, gusto per il cambiamento e fluttuazione rapida delle preferenze. Con lo
sviluppo del tempo libero e degli svaghi si è diffuso il gusto delle attività ludiche, la rivendicazione
di tempo per sé, di momenti di vita incentrati sui desideri individuali. La fase II ha dato impulso a
una fun morality fondata sulla priorità dei piaceri del momento dell’individuo, sui sogni d’evasione
e distrazione, sulla passione per i viaggi, per il mare e il sole. Il tempo per sé ha guadagnato diritto
di cittadinanza. Con il diffondersi dell’abitudine di fornire ai ragazzi il denaro per le piccole spese, i
ragazzi sono liberi di comprare ciò che preferiscono. In consumo individualistico della cultura di
massa è figlio della fase II.

IL TURBO-CONSUMERISMO
Gli stili di consumo sono rimasti ampiamente improntati all’habitus di classe e al comfort semi-
collettivo dei nuclei familiari. È proprio questo che fa scattare la fase III, che appare come quella
che, ampliando incessantemente la gamma delle scelte personali, libera i comportamenti
individuali. La fase III rappresenta il passaggio dell’età della scelta a quella della iper-scelta, dal
mono al multi-comfort, dai consumi individualistici a quelli iper-individualistici.
I consumi iper-individualistici
Negli 70 si sviluppa il multi-comfort, cioè il passaggio da un consumo voluto della famiglia a
quello imperniato sull’individuo. Ciascuno può organizzare la sua vita privata, con i suoi ritmi,
indipendentemente dagli altri. Il multi-comfort e i nuovi oggetti elettronici della fase III hanno
comportato una escalation della individualizzazione dei ritmi di vita. I telefonini, il congelatore, il
forno a microonde consentono alle persone di costruire in modo autonomo il loro spazio-tempo. I
riflettori sono puntati sull’iperindividualizzazione dell’uso dei beni di consumo, sullo sfasamento
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dei ritmi all’interno della famiglia. La società degli iperconsumi può scrivere “A ciascuno i suoi
oggetti, a ciascuno le sue abitudini, a ciascuno il suo ritmo di vita”. Man mano che l’offerta
diventa più variata ed esotica, i menu, gli orari, i luoghi rispecchiano scelte più personali che
regole collettive. Anche il rapporto con la moda diventa più soggettivo, gli adulti acquistano ciò
che piace, ciò che gli va e non più la moda per la moda, anche se questo è un atteggiamento che
vale per gli adolescente. La fase III si contraddistingue per la crescente personalizzazione delle
abitudini quotidiane, la grande distanza che i protagonisti prendono nei confronti della classe
sociale a cui appartengono.
Il consu-viaggiatore
Man mano che la mobilità s’intensifica e gli individui hanno sempre meno tempo da dedicare alle
loro compere, vediamo che i luoghi di transito cominciano ad assomigliare a dei piccoli grandi
centri commerciali. Gli aeroporti diventano luoghi di iperconsumo, nei corridoi delle metro sono
installati negozi di alimentari, abbigliamento, fiori. Il “commercio di transito” riguarda perfino gli
ospedali. I non luoghi stanno diventando aree commerciali, piene di prodotti di base ma anche di
marca. Nelle fasi I e II i consumatori si spostavano per recarsi nei negozi, nella fase III è il
commercio che si muove e va loro incontro. Negli aeroporti il giro d’affari è superiori a quello degli
ipermercati. Si è verificata una mutazione: mentre la fase II era quella incentrata sulle prestazioni
tecniche, la fase III non smette di diversificare e moltiplicare l’offerta di servizi e viaggiatori. Il
passeggero non è più solamente colui che prende un treno, l’aereo o l’auto, è un consumatore da
attirare, occupare e distrarre. La fase III vede moltiplicarsi i servizi che non siano correlati al
viaggio: l’obiettivo a cui si mira è quello di commercializzare il tempo, dargli una struttura, un
“consumo dentro al consumo”. Treno e aereo sono mezzi di trasporto rapidi, quindi la politica è
quella del “viaggiare meglio” grazie ad una moltitudine di servizi. Le compagnie offrono servizi
numerosi. Per accaparrarsi il cliente e strapparlo alla concorrenza in un mercato deregolamentato,
sarà necessario proporre un grado sempre maggiore di comfort, servizi e distrazioni. Non si offre
più un viaggio veloce, ma si cerca di far passare rapidamente il tempo. Una politica che tende a
far dimenticare che i viaggi richiedono tempo.
I consumi a ciclo continuo
Un’evoluzione simile si verifica nell’organizzazione temporale dei consumi. Oggi i programmi
radiofonici e televisivi sono trasmessi ininterrottamente, diverse società di servizi sono operativi
24/7. Le agenzie distribuiscono le offerte su tutto l’arco dell’anno, le consegne di piatti pronti, a
qualunque ora e a domicilio, si stanno sviluppando con successo. In Europa, le norme sugli orari
di apertura stanno diventato più elastiche. Numerosi istituzioni tentano di opporsi a una città che
sia interamente destinata ai consumi, ma ciò non toglie che oggi più di un francese su due sia
favorevole all’apertura domenicale dei negozi. È in atto un processo di strutturazione di un
universo iperconsumeristico a flusso ininterrotto che funziona non stop 365 giorni all’anno. Il
capitalismo si è trasformato in un turbo-capitalismo, così siamo testimoni di un turbo-
consumerismo. La fase III sta operando al fine di dilatare l’organizzazione temporale dei consumi,
allungando gli orari e i giorni di apertura dei negozi, eliminando progressivamente i tempi vuoti o
protetti. Mentre si parla di turismo notturno, la notte diventa a pieno diritto un settore economico
a sé. Alcuni negozi cominciano i saldi il giorno X a mezzanotte. Occupando lo spazio notturno,
l’economia abolisce qualunque momento di pausa, costruisce una città aperta al consumo a
orario continuato. La società dell’iperconsumo si impegna a mantenerlo sempre più sveglio
dilatando il suo regime temporale. La logica del turbo-consumerismo si realizza perfettamente
sulle reti elettroniche grazie agli acquisti on-line. Se nel corso delle fasi I e II il cliente si è
emancipato dall’influenza del venditore, nella fase III il cyber-consumatore si libera di tutti gli
ostacoli spazio temporali poiché non è più obbligato a spostarsi sul luogo di vendita. L’internauta
può aggiornarsi in tempo reali sui prodotti e sui servizi e a tutti i diversi prezzi, prima di fare una
scelta che risponda alle sue necessità.
Un turbo-consumerismo policronico
Nello stesso momento in cui la grande maggioranza dei consumatori auspica di perdere meno
tempo possibile per gli acquisti, si moltiplicano le case rapide e i distributori automatici. La
clientela della ristorazione rapida è immensa, le industrie agro-alimentari propongono una sempre
più vasta gamma di prodotti di uso immediato, piatti e alimenti pronti. L’iperconsumatore è quindi
questo individuo frettoloso per il quale il fattore tempo è di vitale importanza per l’organizzarsi del
suo programma quotidiani. Accessibilità diretta e immediatezza si impongono come nuove
esigenze temporali. Nei luoghi di trasporto si installano distributori ultrarapidi di biglietti e schermi
che forniscono informazioni sui tempi di attesa. Tutti vogliono poter comunicare ed essere
raggiunti, vedere e comprare rapidamente, ovunque e in qualunque momento. L’epoca dei felici
momenti di pazienza, nei quali l’esperienza dell’attesa costituiva un elemento piacevole, tramonta
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a vantaggio di una cultura dell’impazienza e della soddisfazione immediata dei desideri. È il tempo
dell’attesa zero del “quel che voglio, quando voglio, dove lo voglio”, il turbo consumatore vuole
ottenere tutto e subito, non importa in che giorno o in che momento. Man mano che proliferano le
offerte e le domande in tempo reale, Homo Consumans diventa allergico alla minima attesa.
L’ordine del tempo precipitoso fa sparire la distanza e il distacco necessari al pensiero. Nuovo
modello della nostra relazione con il tempo, l’urgenza è presentata come il “meta-tempo sociale”
della fase III. È vero che l’iperconsumatore mostra in modo evidente la sua preoccupazione di fare
sempre più in fretta, è vero che non sopporta di perdere tempo e vuole disporre dell’accesso ai
prodotti, alle immagini, comunicazione a qualunque ora del giorno e della notte. Tuttavia si è
testimoni della proliferazione di desideri e comportamenti che, attraverso un orientamento verso i
piaceri sensoriali ed estetici, il benessere e le sensazioni corporee, esprimono la valorizzazione di
un temporalità lenta, qualitativa e sensistica. Lo slow food contro il fast live. Non una temporalità
uniformemente urgentista, ma un sistema composto da temporalità profondamente eterogenee. Il
regime del tempo nella società degli iperconsumi non ha alcunché di uni-dimensionale, al
contrario, è paradossale. La fase III si struttura sotto il legno di un consumatività poli-cronica. Non
bisogna perdere di vista il ruolo fondamentale che interpreta il protagonista individuale, il
“consum-attore”, adotta strategie individuali, compie scelte e giudica personalmente,
accelerando qui per liberare il suo tempo là. Guadagnare tempo non è solo un obbligo
determinato dall’esterno, è forse anche una strategia destinata a far approfittare di altri momenti
della vita. Si afferma l’imperativo di celerità e più si esprimono le considerazioni etiche, le
posizioni critiche nei confronti delle marche e di consumi irresponsabili. Il turbo-consumerismo
non deve essere tanto proposto come un ordine che toglie i soggetti dalla prima linea ma come
una dinamica che favorisce la presa di distanza dal presente e la responsabilizzazione etica del
consumatore.
L’effetto Diva
Il tipo ideale del turbo-consumatore s’impone anche perché la fase III ha profondamente
destabilizzato gli antichi modelli di classe, i codici simbolici differenziali che strutturavano le
abitudini e i gusti individuali. All’inizio della fase II, nei ceti basi domenica ancora il sentimento di
appartenenza a uno stesso mondo sociale, strutturato intorno a dei punti di riferimento e a uno
stile di vita omogenei. Vi è un insieme di abitudini e richiami all’ordine che hanno il compito di
contrastare i tentativi di valicare le frontiere di classe. In questo universo divino dall’antagonismo
tra “Loro” e “noi”, vestirsi, abitare, mangiare sono attività regolare dalle maniere di classe, da
differenze di habitus. È questa organizzazione collettiva dei consumi che ha posto fine alla fase III.
Si è verificata una mutazione: nel quadro della società d’iperconsumo non si acquista più
necessariamente cà che acquista chi è socialmente vicino. Al principio di “a ciascuno il suo
posto” si sostituisce un principio di legittimità contraria “ciascuno fa quel che gli piace”. Il
principio di autonomia è diventato la regola di orientamento nei comportamenti individuali. Il
turbo-consumerismo si contraddistingue per la sua emanaipazione dei confronti degli obblighi
simbolici di classe, cosicché il diritto a costruire il nostro modo di vivere “come vogliamo” non
incontra più alcun ostacolo se non il livello del potere d’acquisto. Nello stile di vita di oggi, più che
a classe di origine, è il denaro di cui disponiamo a fare la differenza. Il nuovo consumatore appare
un acquirente che non deve rendere conto a nessuno. Ovvio, ci sono dei casi dove le scelte sono
riallacciate alla classe ma questo è perché gli stili di vita delle classi sono sempre più condivisi.
Ciò che distingue la fase III non è l’omogeneizzazione sociale, bensì l’irrilevanza del potere
orientate dei motivi di classe, la distanza dei protagonisti dalle norme collettive e dagli habitus.
Effetto diva per rifarsi ad un film di Beinex dove un giovane impiegato, di condizioni modeste, vive
in un loft in stile barocco ed è appassionato di opera lirica e dispone di attrezzatura di
registrazione professionale.
I consumi balcanizzati
Le mode dei giovani offrono l’immagine più lampante di come i consumi si comunitarizzino.
Eccoci nell’età del consumo organizzato in associazioni. Nelle fasi precedenti la divisione in classi
costituiva i principi organizzativi dell’ambito del consumo, che si disponeva dall’alto verso il baso,
partendo da punti di riferimento comuni. Nella fase III va di pari passo con il collasso di questa
logica piramidale, a beneficio di un modello di consumo orizzontale o organizzato in associazioni.
Dopo l’età centralizzata viene l’età multipolare dell’iperconsumo, in cui le differenziazioni si
verificano secondo una molteplicità di criteri relativi all’età, alle preferenze, ai progetti di vita,
orientamento sessuale. In queste comunità si entra e si esce a piacimento attraverso una ricerca
di identità, adesione totalmente agli antipodi dell’imposizione meccanicistica dei tempi passati.
L’epoca che si annuncia stabilisce un accomunamento sostenuto dalla preoccupazione di

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affermare se stessi, un consumo eterogeneo di clan, indotto dall’onda dell’individualismo dei


protagonisti.
Il bambino iperconsumatore
La società dell’iperconsumo vede l’avanzare di uno stesso modello consumeristico-emotivo-
individualistico in tutte le fasce d’età. Non c’è più alcuna fascia d’età che non prenda pienamente
parte al consumo. Dagli anni 50, i giovani adolescenti cominciano a emergere come consumatori
autonomi e a diventare bersagli commerciali specifici. La fase III ha spinto questa logica più in alto
e, il bambino, esercita un’influenza sempre maggiore sugli acquisti dei genitori: è diventato un
acquirente-decisionista grazie al danaro delle piccole spese e un pilota di acuisti grazie al nuovo
ruolo che riveste nei confronti dei genitori. Il bambino oggi chiede, i genitori tengono conto dei
suoi desideri, esprime le sue preferenze, non è più il bambino muto dell’epoca passata. Eccoci
nell’epoca del bambino iperconsumatore che detiene una piccola porzione di potere economico e
controlla una parte delle spese familiari. Per i genitori, allo stesso tempo, in consumi denotano
una logica esperienziale che è essenzialmente un momento di gioia procurato dal vedere il
piacere dei loro figli. Nella fase III prevale il consumo-amore e dove sboccia il bambino-re.
Power Age
I cambiamenti sono gli stessi se si considera la fascia senior, coloro che hanno più di 50 anni.
Disponendo di un potere d’acquisto che si è accresciuto, avendo meno bocche da sfamare, è da
attribuire circa la metà delle spese correlate ai consumi. Il mercato dei senior-nauti cresce due
volte più rapidamente della media. La fase III è coeva alla Power Age, l’era dominata dai senior
che si sono tramutati in iperconsumatori emotivi di prodotti e servizi. È finita quell’epoca in cui i
pensionati erano spossati, con pochi anni da vivere, oggi i senior partono, viaggiano, visitano città
e musei e frequentato corsi, fanno sport, vogliono dimostrare meno della loro età. Invecchiare era
sinonimo di inattività, ipoconsumo e fedeltà alle marche. Oggi è diventato un periodo di vita
contrassegnato da edonismo e super attività consumativa. Il pensionato è l’immagine perfetta:
libero dal lavoro e assorbito dalle preoccupazioni per il corpo, la salute, i viaggi, i piaceri. Cerca di
restare “sulla cresta dell’onda” e dimenticare il tempo che passa. La fase II ha inaugurato le
strategie di segmentazione del mercato, ma quel marketing aveva un’impronta rivolta alla
giovinezza. La situazione sta cambiando e la fase III vede emergere un marketing diretto alla
generazione senior. La comunicazione punta al mercato senior, visto come una miniera d’oro in
futuro. (Es. Marche di cosmetici lanciano campagne pubblicitarie sul rinnovamento del viso,
promettendo alle donne di 50 anni di dimostrare “dieci anni di meno”. Nelle immagini pubblicitarie
vediamo sempre di più nonni e nipotini. È un mercato iper-segmentato che divide la categoria in
“master”, “liberati”, “tranquilli” e “grandi anziani”. Nella fase III nessuna fascia d’età deve più
sfuggire alle maglie del marketing. Se i senior diventano più visibile nelle pubblicità, desiderano
restare giovani e seducenti, sessualmente attivi, “come gli altri”. Questo processo è dimostrato
dal successo dei prodotti curativi e dalla chirurgia estetica.

TRA MISURA E CAOS


Nasce una nuova epoca, quella del consumatore imprenditore. Finito il consumatore
individualista, ecco venuto il tempo del consumatore esperto e responsabile. Però, per quanto
precise, le descrizioni di questo neo-consumatore non riescono ad accreditare l’idea di un
superamento “dell’individualismo trionfante”. Cosa c’è di più individualistico delle nuove
preoccupazioni relative alla salute? Ci sono numerose motivazioni individualiste nella crescita dei
consumi per la salute di quante ce ne siano per le spese destinate ad attirare lo sguardo degli
altri. Quindi, è difficile giustificare una decisiva inversione del consumatore. Il turbo-consumatore
si avvicina in ugual misura a ciò che è essenziale nella vita e a ciò che è più frivolo. Il consumatore
individualista sta accelerando la sua corsa. L’individuo non è sinonimo di egoismo assoluto: per
quanto segua un regime “senza obbligo né sanzione” può essere combattive con lo spirito di
responsabilità, con la preoccupazione per certi valori.
Consumatore “professionale” e consumatore anarchico
L’idea di un Homo Consumans che gestisce le sue attività in maniera professionale comunica
troppo l’immagine piatta di un consumatore razionale ed equilibrato: se si considera il quadro nel
suo insieme, esso rivela tratti più espressivi. Da una parte, la nostra epoca celebra la
responsabilità individuale e comportamenti di prevenzione, dedica un culto alla salute e alla
qualità della vita. Dall’altra parte, osserviamo una moltitudine di fenomeno che sono sinonimi di
eccesso e de-controllo di sé: fashion victims, acquisti compulsivi, indebitamento, cyber
dipendenze. Si annunciano sia un individualismo sfrenato e caotico sia un consumatore esperto
che si preoccupa di sé in maniera responsabile. L’eccesso di possibilità di scelta è uno dei motivi
per cui si è rimodellato un individuo distaccato da fini comuni, il quale, abbandonato alle sue sole
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forse si dimostra incapace di resistere alle tentazioni esterne e agli impulsi interiori. La fase III ha
messo in orbita un consumatore ampiamente libero da imposizione e riti collettivi ma questa
autonomia porta con sé nuove forme di asservimento: da una parte, è meno assoggettato a valori
conformisti, da un’altra, deve di più al regno monetizzato del consumo. L’individuo è si autonomo
ma è anche più che mai dipendente dall’ambio commerciale per il soddisfacimento dei suoi
bisogni. L’influenza generale del consumo sugli stili di vita e i piaceri si allarga sempre più
soprattutto perché impone meno regole sociali restrittive.

6) IL FAVOLO DESTINO DI HOMO CONSUMERICUS


La fase III può essere presentata come il momento in cui la commercializzazione degli stili di vita
non incontra più resistenze culturali e ideologiche strutturale e in cui tutto ciò che rimaneva
dell’opposizione ha ceduto al canto delle sirene dei beni di consumo. È giunta l’ora in cui tutti gli
ambiti della vita sociale e individuale sono riorganizzati secondo i principi dell’ordine
consumeristico. La società degli iperconsumi designa lo stadio in cui il non-economico stesso
prende forma consumistica ormai globalizzata. Il primo atto dell’economia politica generalizzata è
finito: eccoci al momento del consumismo senza frontiere, dei consumi-mondo queste scena
stoica in cui non solo gli scambi sono regolati dal mercato, ma anche ciò che non è
commercializzato è ghermito dall’ethos consumeristico.

IL CONSUMO-MONDO
I consumi senza freno
Il pianeta del consumo di massa è stato costruito sbalzandosi dei comportamenti tradizionali,
facendo tramontare le vecchie culture. I grandi magazzini hanno inventato lo “shopping”come
nuovo mezzo di distrazione e creato nelle classi borghesi il bisogno irresistibile di consumare. Poi,
il celebre “five dollari a day” di Ford è pensato come possibilità per l’operaio di entrare nello
statuto del consumatore moderno. Nessuno può non ammettere il suo successo assoluto,
l’addestramento ai consumi moderni è riuscito oltre qualunque ragionevole speranza. Non
esistono più norme e mentalità che si oppongano di petto all’ondata dei bisogni monetizzati. Il
primo grande ciclo di razionalizzazione e modernizzazione dei consumi è finito. L’era
dell’iperconsumo comincia nel momento in cui le vecchie resistenze culturali sono cadute. La fase
III è quella civiltà in cui il referenziale edonistico si impone come un’evidenza e la pubblicità, gli
svaghi, i cambiamenti perpetui del quadro della vita sono “entrati nei costumi”.
La spiritualità consumeristica
La religione non costituisce più un potere che contrasti l’avanzata dei consumi-mondo, a
differenza del passato la chiesa non impone più il concetto di peccato morale e non esalta più i
valori della rinuncia e del sacrificio. Non è più tanto questione di inculcare l’accettazione delle
prove ma piuttosto di rispondere alle delusioni inflitte dalle mitologie secolari che non sono
riuscite a mantenere le loro promesse e a dare quella dimensione spirituale necessaria alla piena
realizzazione delle persone. L’universo iperbolico dei consumi non è stato la tomba della religione,
bensì lo strumento del suo adattamento alla civiltà moderna della felicità sulla terra. Nel momento
in cui domini una concezione intra-mondana e soggettiva della salvezza, in parallelo cresce la
commercializzazione delle attività religione e para religiose. Nella società degli iperconsumi si
compra e si vende anche la spiritualità. Diventa quindi mercato di massa, prodotto da
commercializzare. La fase III è quella che vede sfumare la linea di demarcazione tra Homo
Religiosus e Homo Consumericus. Ovviamente va sottolineato che “credere, non è consumare”. È
evidente che non si tratti di un inglobamento del religioso nei consumi: assistiamo semplicemente
all’estensione della formula del supermercato fino al territorio del significato, alla penetrazione dei
principi degli iperconsumi proprio all’interno dell’anima religiosa,
L’iperconsumatore “etico”
L’etica costituisce un altro settore di punta del consumo-mondo. Un numero sempre maggiore di
consumatori afferma di essere sensibilizzato nei confronti di quei prodotti. Nelle nostre società
non si consumano più solo “cose”, film e viaggi, si acquistano “prodotti etici” ed ecologici. La
fase III si struttura sotto gli auspici del consumo corretto della spesa civica ed ecologica,
socialmente responsabile. L’iperconsumatore esperienziale esprime il suo pieno consenso ai
mega-show della bontà, alle testimonianze strazianti, a divi che siano a disposizione della
solidarietà. Lo stadio terminale dei consumi si conclude nella sacralità del valore etico, strumento
di affermazione dell’identità dei neo-consumatori. Non c’è più antagonismo tra edonismo e
disinteressamento, idealismo e spettacolo-clisma, consumismo e generosità; la nostra epoca ha

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rimescolato le antiche frontiere per la più grande felicità dell’iperconsumatore sentimental-


mediatico.
Il consumismo senza frontiere
Tutte le grandi istituzioni sociale sono riformavate. Perfino la coppia, ognuno si vuole autonomo e
cerca di conservare la possibilità di disporre di se stesso. C’è un calo dei matrimoni e l’aumento
delle unioni libere. Perfino il rapporto con la politica, aumenta l’incostanza elettorale, molte
persone si orientano individualmente, si cambia a voto a seconda della posta in gioco e non più
per un sentimento di fedeltà ad un partito. Siamo giunti al momento in cui, in tutti gli ambiti, si
impongono il principio del self-service e la caducità dei legami, la strumentalizzazione utilitaristica
delle istituzioni, il calcolo individualistico dei costi e dei benefici. Il mercato è diventato il modello
e l’immaginario che regole l’insieme dei rapporti sociali e il consumatore si presenta come la
figura predominante del contesto sociale. La fase III può essere definita come la società in cui la
forma-consumo appare lo schema organizzatore delle attività individuali. Si è incarnata una nuova
figura emblematica dell’individuo: quella dell’iperconsumatore globalizzato.

IL CONSUMO RIFLESSIVO
Si è costruita una nuova cultura che pone il culto della realizzazione personale, della qualità della
vita e della salute infinita al posto dei sogni di discontinuità storica. Siamo testimoni di una sorta
di democratizzazione del dissenso, le critiche al mondo consumistico sono diventate la cosa più
comunemente condivisa da tutti. Man mano che l’ordine commerciale invade le abitudini di vita,
biasimo e insoddisfazioni si moltiplicano, tutti criticano un mondo che nessuno, in fondo,
vorrebbe sostanzialmente diverso. Tanto più l’adesione allo “status quo” è profonda, tanto più c’è
atteggiamento critico.
Dalla vetrina alla coscienza
Proprio come si intensifica l’autonomizzazione degli individui nei riguardi delle grandi istituzioni
collettive, così si verifica un maggiore distacco nei confronti delle marche e dei prodotti di
consumo. Ciò non significa disaffezione, bensì maggior riflessività del consumatore. Homo
Consumericus non cessa di appellarsi a Homo Scientificus per orientarsi e scegliere con
“conoscenza di causa”, per minimizzare gli effetti delle sostanze nocive, per mettere in atto
strategie di prevenzione dei rischi. Nella fase III l’acquistare non va più senza il sapere senza una
prospettiva informata, senza una riflessione competente. Fine dell’epoca del commercio
spensierato ed innocente: eccoci allo stadio riflessivo del consumo elevato a problema, oggetto di
dubbi e interrogativi. La fase III propone l’avvento dei consumi come mondo e come problema,
come grattacapo e come coscienza riflessa. Cambiando le sue abitudini e facendo scelte
“illuminate”, il neo-consumatore si propone come un protagonista libero, che valuta i rischi e
discrimina i prodotti. Il “Prendere parola” non è più solamente una reazione generata da
esperienza di consumo deludenti o presentate come pericolose, è uno dei percorsi intrapresi
dall’individuo per affermare la sua soggettività autonoma e la sua identità personale.
L’iperconsumo come destino
Ora quello che conta prima di tutto è la difesa dei grandi equilibri del Pianeta, la produzione di
merce riciclabile. La protesta globale si è trasformata in strumento di riflessività pragmatica, fatta
di contestazioni mirate, di sensibilizzazione alle emergenze del momento, di appelli a una
modificazione realista e necessarie delle pratiche di produzione. Non è più l’epoca della ri-
definizione dei bisogni, bensì quella dell’eco-consumerismo, delle etichette bio e dell’ecologa
industriale. L’obiettivo perseguito è quello di fare entrare i paesi in via di sviluppo nell’età del
benessere materiale. Abbiamo l’atteggiamento della denuncia radicale, pur non avendo in
contropartita la speranza e l’organizzazione pratica di un altro mondo. Il consumo-mondo avanza
come un destino ineluttabile.C’è una richiesta di regolazione e umanizzazione della
globalizzazione.

LIMITI DELLA COMMERCIALIZZAZIONE


La fase III è il momento in cui le forze del mercato invadono la quasi totalità degli aspetti
dell’esistenza umana. Potrebbe essere giunto il momento dove, all’ombra del consumerismo
euforico, si stia preparando una nuova umanità o post-umanità da incubo. La lotta per
l’esplorazione e i desideri di trascendenza di sé non sono stati spazzati via: passione per il rischio
e la prodezza, volontà di fare bene un lavoro, gusto per la creazione sono fenomeni che rilevano
come nella fase III non tutti si riconduca alla logica del consumabile. Nonostante l’esperienza
commerciale occupi una parte sempre più importante del nostro tempo, il rapporto con se stessi
e gli altri non si riduce alle sole attività consumistiche. Man mano che la consumatività amplia la
sua influenza, non cessano di riaffermarsi le esigenze di superare se stessi, di esser stimati e di
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avere stima di sé grazie a ciò che si realizza. L’esistenza umana non è stata presa in mano,
dall’inizio alla fine, dall’ambito commerciale ed edonistico: non siamo diventati i consumatori delle
nostre stesse vite.
Rapporti commerciali e socialità
La problematica della de-socializzazione sistematica si è aggravata con lo sviluppo delle reti e
delle nuove tecnologie dell’informazione che progressivamente sostituiranno la tradizionale vita in
società con le interazioni virtuali. Secondo alcuni studi, l’uso di internet accresce la solitudine, fa
leggermente diminuire la quantità del supporto sociale. Il mondo che verrà sarà un mondo di
comunità virtuali, il cui effetto è di distruggere la comunità reale, l’incontro diretto e il legame
collettivo. Tante cose cambiano: i bistrot di quartiere spariscono ma nasce una nuova generazione
di caffè specializzati: birra-bar, vino-bar, karaoke, cybercafè), i giovani comunicano tramite sms
ma amano ritrovarsi per andare al cinema, mangiare, fare acquisti. La società degli iperconsumi
non è sinonimo di cocooning (avvolgersi in un bozzolo) e di confinamento interattivo. Le
apparecchiature audiovisive delle case non hanno assolutamente soffocato il bisogno di essere in
contatto con la gente e di incontrare gli amici. La verità è che sono proprio gli individui più
provvisti di nuove tecnologie che escono di più e incontrano più gente degli altri. Studi recenti
hanno dimostrato che le relazioni virtuali non minacciano quelle personali, al contrario, le
completano. Le persone che utilizzano frequentemente i servizi internet continuano a intrattenere
relazioni fuori rete o cercano di allargare il loro orizzonte. Evitiamo il cliché del declino della vita
sociale. L’indebolimento delle relazioni con il prossimo non va a vantaggio di una clausura sociale,
ma a quello di una socialità allargata.
Annientamento dei valori?
Anche lo spirito di sacrificio e l’ideale di “vivere per gli altri” non sono più in alcun modo
professati, non possiamo stimar la cultura degli iperconsumi a quota zero dei valori e dei
comportamenti altruistici. Malgrado tutte le forme di indifferenza che esistono nei confronti del
prossimo, le nostre società fanno sì che l’identificazione con gli altri sia più favorita che perduta.
Sempre e ancora ricettive nei confronti dell’infelicità altrui e desideroso di sentirsi utile agli altri, il
cuore dell’iperconsumatore non ha cessato di battere: ha solo cambiato ritmo.
La sentimentalizzazione del mondo
L’amore in quanto valore, ben lungi dal declinare, continua a essere posto su di un piedistallo. È
considerato l’immagine più emblematica della felicità. Mai la coppia è stata fondata sul
sentimento, l’idea del buon matrimonio non ha mai tanto escluso quella del matrimonio
d’interesse. Anche se le questioni di denaro sono onnipresenti nella vita quotidiana, un’altra
logica, antinomica poiché affettiva, “disinteressata”, estranea al valore commerciale, non smette
di godere di una legittimità immensa. Nei mass media non consumiamo solo l’amore, ci crediamo;
noi organizziamo e disorganizziamo parti intere della nostra vita in funzione dei battiti del cuore.
L’universo dei consumi-mondo non pone fine al principio dell’affettività sentimentale, lo consacra
quale valore superiore, correlato alla cultura dell’individuo, il quale, proprio perché aspira
all’autonomia personale, rifiuta regolamentazioni istituzionali del tempo privato.
Leggerezza e fragilità
Alla “rivoluzione delle speranze” generata dalle fase II ha fatto seguito la presa di coscienza dei
“danni del progresso”, il sospetto nei confronti delle nuove tecnologie, il timore del degrado del
libello di vita. Anche se la società degli iperconsumi è riuscita a neutralizzare le lotte simboliche
che orchestrano gli atti di consumo, non cessa di riproporre nuove conflittualità tra l’uomo e le
cose, l’uomo e se stesso, l’uomo e il sociale. Dietro le luci della leggerezza consumeristica,
sogghignano sempre le angosce del mal-essere, della lotta per la vita e per la sopravvivenza.
L’umanità si mostra sempre vulnerabile e fragile. Non si profila all’orizzonte l’abrasione dei valori e
dei sentimenti, ma, più prosaicamente, la de-regolazione delle esistenze, la vita senza protezione,
la crescente fragilità degli uomini. Mentre scintilla l’euforia del benessere, ognuno ha la
sensazione di non aver vissuto quello che avrebbe voluto vivere, di essere mal compreso, di
essere ai margini della vita vera. Se dai sondaggi emerge che la maggioranza si dichiara felice,
tutti però, a intervalli più o meno regolari, si mostrano inquieti, scontenti, insoddisfatti della loro
vita privata o professionale. La civiltà che si annuncia distrugge la tranquillità con se stessi e la
pace con il mondo. Sempre più soddisfazioni materiali, viaggi, giochi, speranza di vita: eppure,
tutto ciò non ci ha spalancato le porte della gioia di vivere.

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Parte Seconda / Piaceri Privati, Felicità Dolente


INTRODUZIONE
L’intera vita delle società sovrasviluppate si presenta come un immenso accumulo di segni del
piacere e della felicità. Emergono cinque grandi modelli paradigmatici che determinano
l’intelligibilità del piacere e della felicità nelle nostre società. Li illustrerò successivamente, ognuno
sostenuto da una figura mitologica emblematica:
1. PENIA: Le società consumati si correlano a un sistema di stimolazione infinite dei bisogni, un
sistema che più fa credere alla felicità a portata di mano e più crea delusione e frustrazione. La
società che più ostenta la festa della felicità è quella in cui sfugge il più: il suo principio non è
altro che quello di Penia, la Dea della povertà.
2. DIONISO: Nel secondo modello prevalgono i desiderio di godimento. In rottura con le antiche
norme del produttivismo borghese, questa epoca si distingue per l’incitamento all’istante
vissuto. Arriva l’era che presenta Dioniso, mosso dai desideri di ebbrezza e delirio.
3. SUPERMAN: L’edonismo dei costumi è una finzione, il mondo che ci governa è costituito da
attivismo e performance, le sue parole chiave sono competizione, eccellenza e urgenza. Tutto
si riduce allo sfoggio della potenza, al massimo sfruttamento dei potenziali, al superare di se
stessi. Sul fronte della società della performance si iscrive l’eroico nome di Superman.
4. NEMESI: L’era dell’abbondanza non crea tanto un clima di leggerezza, quanto
un’esasperazione dei conflitti interpersonali, il tormento dell’invidia, il dispiacere nel
contemplare il successo e la felicità degli altro. La civiltà del benessere esacerba i sentimenti
di odio e gelosia, la rivalità e la competizione tra pari. Possiamo chiamare questo modello
Nemesi, dal nome della Dea greca. Della vendetta e della giustizia.
5. NARCISO: Le società dei consumi hanno dato impulso a un’individualizzazione parossistica
degli stili di vita e delle aspirazioni, infrangendo l’ascendente organizzativo delle grandi
istituzioni, provocando lo sconvolgimento delle utopie della storia e delle morali di sacrificio.
Se il processo moderno di emancipazione dell’individuo si è svolto attraverso il diritto e la
politica, la seconda parte del XX secolo ha prolungato questa dinamica grazie ai consumi e ai
mezzi di comunicazione di massa. Tutta la posta ora è sui godimenti privati: ecco una nuova
cultura, il consumerismo, il culto del corpo e di tutto ciò che è psicologico, le passioni di
autonomia e di realizzazione individuale hanno dato al rapporto con se stessi una dimensione
di rilievo eccezionale. La figura emblematica è quella di Narciso.
Le soddisfazioni vissute sono più numerose che mai, ma la gioia di vivere non avanza, anzi,
diciamo che regredisce; la felicità sembra essere sempre altrettanto inaccessibile. Questa
situazioni non ci avvicina all’inferno né al paradiso: semplicemente, contraddistingue il momento
di felicità paradossale del quale qui si vorrebbero illustrare i chiaro scuri. Illustriamo i modelli:

7) PENIA: GODIMENTI MATERIALI, INSODDISFAZIONE ESISTENZIALE


La civiltà materialista non ha mai smesso di costituire l’oggetto di innumerevoli critiche avanzate
dalle più disparate scuole di pensiero (Es. I cristiani l’hanno accusata di rovinare la fede, i
razionalisti hanno fustigato la futilità della moda, i Marxisti l’hanno equiparata ad una macchina
economica produttrice di falsi bisogni). A queste critiche esterne, si aggiungono poi le critiche
interne che denunciano l’impostura della felicità commerciale, l’incapacità delle società ricche di
accontentare davvero gli uomini. L’euforia è palese, la desolazione degli essere umani progredisce
ogni giorno un pò di più. La società degli iperconsumi è quella dove le insoddisfazioni crescono
più rapidamente delle offerte di felicità. Si consuma di più ma si vive di meno, l’universo
commercializzato aggrava il male dell’uomo, riducendolo in uno stato di insoddisfazione
inappagabile. Penia, si erge come figura emblematica dell’iperconsumatore.

DELLA DELUSIONE
Come si spiega il fatto che con l’innalzamento della vita, si generava sconforto e scontento? Tibor
Scitovksy, con una sua famosa tesi, si chiede quali siano le forza che spingono il consumatore a
perdere interesse in un bene o in un servizio per acquisirne altri. Egli sostiene che questo sia
dovuto al desiderio di tentare esperienze variate, al bisogno di cambiamento e novità. Distingue il
piacere come bene positivo dal comfort, inteso come bene negativo. In questa visione, la
mancanza di comfort è vista come ciò che deve precedere il piacere: bisogna avere freddo per
apprezzare il fuoco del camino. Comfort e piacere si escludono quindi l’un l’altro. Il consumatore
moderno si trova in uno stato di dipendenza nei confronti del comfort: è più motivato dal desiderio
di evitare il disagio e la frustrazione provocati dal cambio di un’abitudine di quanto lo sia da una
ricerca di ulteriore soddisfazione. Secondo Scitovsky l’aumento del benessere si coniuga a una

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modificazione limitata della felicità del consumatore. Questa è l’economia senza gioia che fallisce
nel dare il piacere massimo e nell’aumentare la felicità dei consumatori.
Consumo e delusione
Hirschman ha messo l’accento sulla delusione intesa come elemento costituente dell’esperienza
umana. Le esperienze di consumo sono la fonte di numerose delusioni perché un insieme di beni
commerciali si rivela incapace di generare le soddisfazioni che ci si attende da essi. Egli rileva che
i “beni veramente non durevoli (mangiare e bere) presentano la notevole caratteristiche di procure
piaceri intensi, di contro, i beni durevoli (elettrodomestici, frigoriferi) danno piacere solo al
momento in cui li si acquista o li si utilizza per le prima volte, sprofondando poi a delusione. La
reazione a questo stato di delusione sta in un ricerca di nuovi oggetti di consumo, in secondo
luogo, ce la prendiamo con noi stessi e in terzo luogo, si rimettono in questione elementi sociale e
battaglie pubbliche con la “presa di parola”. Aderendo a un movimento di protesta, gli individui
ricercano un altro percorso verso la felicità. L’insoddisfazione più grande non scaturisce tanto da
un eccesso di comfort che soffoca il desiderio, ma dall’iperconsumo e dalle privazioni che ne
conseguono. Nessuno ha mai davvero immaginato che un oggetto possa cambiare la vita ed
essere la chiave della felicità. Sebbene cambiamenti non siano sempre tra i più spettacolari, resta
comunque il fatto che l’universo dei beni di consumo funziona come un sistema di novità
permanenti: l’offerta commerciale è capace di procurare più esperienze di piacere che di tedio
perché “succede sempre qualcosa”. Lo shock della delusione è percepito meno di quanto lo
siano l’eccitazione e la soddisfazione di provare cambiamenti sempre rinnovanti nei nostri stili di
vita.
I nuovi vettori della delusione
Ai nostri giorni, le delusioni sono meno suscitate dai beni durevoli di quanto lo siano da quelli
fungibili, in particolare dai prodotti alimentari. Nelle società in cui l’eccesso di peso è vissuto
come un dramma spaventoso, si diffonde l’abitudine di seguire diete, il rapporto con il cibo
diventa una fonte permanente di ansia, si scoraggiamento e sconfitta personale. I prodotti
alimentari hanno perso la loro posizione privilegiata e sono adesso fonte di amarezza e
disappunto. Aggiungiamo anche che i beni collettivi e le esperienze di consumo nello spazio
pubblico sono occasioni sempre più frequenti di delusione, più di quanto lo sia l’utilizzazione dei
beni privati (Es. Ingorghi stradali). Sono solo i consumi del nostro prossimo e i loro effetti a
indisporci; di per se stesso, il comfort privato di cui non godiamo si associa a una grande
sensazione di soddisfazione. Ciò che il consumatore della fase III prova in misura sempre
maggiore è un godimento privato e una “in-comodità” pubblica. Nelle nostre società, il conflitto
non si crea tra comfort e piacere, ma tra l’aspettativa di una soddisfazione e un servizio giudicato
mediocre. È significativo che oggi i motivi di lagnanza si focalizzino più sul sistema dell’istruzione
o i servizi medici che sugli oggetti. Questo è il “paradosso della salute”: mai prima d’ora il libello
sanitario ha raggiunto livelli così altro, mai dubbi e insoddisfazioni hanno trovato tanto modo di
esprimersi. Nella fase III i prodotti sensoriali alimentano il disappunto dei consumatori pi dei
prodotti utilitaristici. Lo zapping è diventato un’abitudine regolare, come si può non riconoscere in
questo fenomeno l’insoddisfazione? Se il cambiare canale è così frequente, significa che una
sensazione di noia domina lo spettatore. Questa situazione è del tutto nuova, nella società
tradizionale, la vita materiale era difficile e quella culturale non suscitava alcun rifiuto, ecco, ora la
situazione si è capovolta: più si moltiplicano le soddisfazioni materiali, più si accrescono le
delusioni culturali.
Vita professionale, vita sentimentale, vita fallita
La sfera professionale è fonte di una crescente area di sensazioni d’insicurezza, di smarrimento e
di dubbi su se stessi. Essere fuori gioco nel mondo del lavoro è sempre più percepito come
carenza e fallimento personale. L’individuo disancorato vive quella che è una realtà economica e
sociale come una questione personale. Ciò che nel passato era vissuto come un destino di
classe, è oggi invece vissuto come un’umiliazione, un’onta personale. Nasce la sensazione di
essere inutili al mondo, di aver fallito in tutto. Ora, numerosi dirigenti si sentono distaccati
dall’azienda, traditi dalla fiducia, altri lamentano un clima di stress. Mentre si alzano i livelli
formazione, si assiste a una forte recrudescenza degli impieghi non qualificati. A incarnare
l’economia senza gioia, è, anzitutto, l’universo professionale. Oltre alla vita lavorativa, la precarietà
tocca anche quella di coppia, impennata di separazioni e divorzi, difficoltà di dialogo. Così
funziona la felicità paradossale: più si esprimono esigenze di vicinanza emotiva e di
comunicazione intensa e più le delusioni punteggiano le esistenze individuali. L’individuo è
condannato a vivere l’esperienza di una sensazione di fallimento personale. La sensazione di una
vita fallita rappresentano sempre più una delle connotazioni dell’individualismo riflessivo: qui sta il
fallimento della felicità paradossale. Il fallimento non è quello del consumatore, ma quello
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dell’individuo-soggetto e della sua esistenza intima. La civiltà delle iper-merci ha accentuato il


desiderio di essere se stessi, la divisione tra sé e sé e tra sé e gli altri, la difficoltà di esistere come
essere-soggetto.

DESIDERI, FRUSTRAZIONI E PUBBLICITÀ


La pubblicità non è solo accusata di manipolare-stradardizzare-rincretinire le persone, ma anche
di essere una trappola diabolico he rende indefinitamente più profonda l’insoddisfazione degli
individui. La pubblicità annega il consumatore sotto un diluvio di immagini di felicità,
promettendogli salute e bellezza, essa condiziona il consumatore, toglie il potere decisionale. La
tesi della “filiera capovolta” di Galbraith spiega che non è più solo questione di produrre merci,
l’imperativo è programmare i bisogni. Si levano voci contro la tirannia delle marche, la cui forza
principale è il “condizionamento” pubblicitario. La pubblicità non solo appare come la chiave di
lettura dei meccanismi di frustrazione, ma come il simbolo delle istituzioni che riescono a
impossessarsi degli uomini e a rimodellare il loro stile di esistenza.
La pubblicità prometeica
Intorno al 1880 furono organizzate le prime grandi campagna nazionali di marca destinate a
smerciare i prodotti fabbricati in grande serie. Se la pubblicità appare come lo strumento che
permette di aumentare il fatturato delle aziende, in ugual misura le si attribuisce la funzione di
acculturare le masse nei confronti della nascente società dei consumi, diffondendo uno stile di
vita incentrato sull’acquisizione dei prodotti commerciali. Educa le masse alla spesa consumata,
razionalizza i gusti e gli atteggiamenti. Essa ha creato una nuova cultura quotidiana fondata su
una visione mercantilistica della vita. Si è ingegnata a sottrarre gli stili di vita all’eredità
tradizionalista. Nelle fasi I e II questo processo di de-tradizionalizzazione e di razionalizzazione
della vita sociale definisce il movimento pubblicitario come un potere di tipo prometeico,
costruttivista, parallelo ai progetti politici e rivoluzionari moderni.
Espansione della sfera pubblicitaria
La pubblicità rappresenta solo un terzo delle spese di comunicazione delle aziende che oggi
prediligono ciò che viene chiamato non mediatico: operazioni promozionali, pubbliche relazioni,
sponsoring. Le campagne promozionali mirano a un mercato mondiale cannibalizzato dalle grandi
marche e dalle norme del prodotto-spettacolo. Le mire della pubblicità si dimostrano più
ambiziose ed essa non si accontenta più di esaltare prodotti, ma enfatizza visioni del mondo,
comunica messaggi, valori e idee cercando la fidelizzazione del cliente: “Just do it” (Nike), “Think
different” (Apple). Nel passato mostrava l’aspetto radioso dei prodotti, oggi mette in scena la
guerra, la pena di morte, il rispetto, il razzismo, i diritti umani. Non si stimola solamente i bisogni
ma si creano relazioni affettive con la marca poiché la promozione dell’immagine diventa più
importante di quella del prodotto. Essa vuole impossessarsi dello spazio mentale stesso. Le
femministe additano l’ascesa della “tirannia della bellezza” (magrezza giovinezza) indotta dalla
pubblicità di prodotti cosmetici, riviste femminili, immagini di top model. Da qui scaturisce la
crescente ansia o insoddisfazione delle donne nei confronti del loro corpo. I giovani non vogliono
più prodotti, voglio marche, il cui successo è in parte legato all’impatto della pubblicità. Anche se
il “non mediatico” ristruttura le politiche di comunicazione, rimane il fatto che la pubblicità appare
più onnipresente e intrusiva che mai.
L’illusione dell’onnipotenza
L’iniziativa è indubbiamente nelle mani dell’offerta, si può solo scegliere ciò che già c’è, non
bisogna trarre la conclusione che il consumatore sia un burattino interamente modellato dagli
esperti della comunicazione: è un grave errore equiparare il consumatore ad un individuo
ipnotizzato, passivo, malleabile a piacimento. Qualunque sia la forza dei mezzi di persuasione,
Homo Consumericus resta un protagonista, un soggetto i cui gusti, interessi, valori e
predisposizioni filtrano i messaggi a cui viene esposto. Se rifiutato l’idea di un potere totalitario
della pubblicità è perché il consumatore sceglie con cura e seleziona le sollecitazioni che lo
assalgono e presta attenzione solo a ciò che è in sintonia con i suoi interessi, le sue aspettative e
le sue preferenze (Es. l’amante delle spiagge è poco ricettivo alla pubblicità di montagne oppure,
se non amate il whisky nessun manifesto vi convincerà mai a comprarlo). La pubblicità propone, il
consumatore dispone: la prima ha dei poteri, ma non tutti i poteri. La crescita della pubblicità si
evince da molti fattori: aumento dei debiti familiari, febbre dell’acquisto, acquisti impulsivi: sono
tutte patologie che non sono prive di legame con le sollecitazioni della pubblicità. Questa è la
tirannia del mondo pubblicitario, diffondendo una cultura di soddisfazione immediata dei desideri,
riuscirebbe a destrutturare l’armonia psichica dei consumatori, a disarmare l’uomo nei confronti
delle aspettative e della frustrazione, a privarlo di una certa distanza fra il suo essere e le
seduzioni commerciali. Va precisato che questi stati fallimentari personali non possono essere
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giustificati dalle sole sollecitazioni commerciali: sempre più frequentemente, il super


indebitamento non è dovuto all’eccesso di consumo di crediti ma da situazioni, come il divorzio,
malattia, separazioni, esistenziali difficili. Più delle incitazioni pubblicitarie, a consumare sera
attendere, sono altri fattori a incidere sui comportamenti: inquietudine sul futuro, incertezza del
mercato, risparmio previdente. Aumentano le preoccupazioni per il controllo degli impulsi
all’acquisto. Tutto considerato, l’influenza della pubblicità sugli animi resta ridotta e vale la pena di
ricordare che le religioni e le grandi ideologie sono riuscite, con ben maggior successo, a rendere
pazzi di desiderio, a portare all’estremo i comportamenti privati e collettivi. Dimostrandosi
impotente a plasmare da cima a fondo i gusti e le aspirazioni, a disequilibrare massicciamente il
realismo dei consumatori, la pubblicità è più simile a un potere moderato che totalitario.
La pubblicità-specchio
Non solo la pubblicità nella fase III non è onnipotente ma il suo ruolo storico è in ribasso. Ora è
libera dall’imperativo di educare le masse alla soddisfazione commerciale dei bisogni. Con ciò la
pubblicità cessa di essere un agente di invenzione di uno stile esistenziale radicalmente nuovo. Il
modello classico della pubblicità, la famosa copy strategy, consisteva nel martellamento di un
messaggio che vantava i benefici funzionali o psicologici di un prodotto. In questo sistema, il
consumatore era equiparato a un soggetto passivo, da condizionare grazie alla ripetitività di
slogan e messaggi brevi. Questa logica è ancora in uso ma è in concorrenza con le nuove
pubblicità che tengono in considerazione la nascita dell’iperconsumatore educato ai consumi,
saturo di prodotti che si assomigliano. La pubblicità diventa spettacolo creativo, non cerca tanto
di celebrare il prodotto ma piuttosto di innovare, commuovere, distrarre, interpellare il
consumatore. I nemici della pubblicità si scatenano perché con queste ultime tendenze, essa si
impegna a diffondere valori e messaggi di significato proprio come un sistema totalitario. Essa
esalta solamente ciò che genera consenso. La pubblicità ipermoderna sembra più di una cassa di
risonanza che un agente di trasformazione socioculturale. Ieri educava il consumatore, oggi lo
rispecchia. Dire però che la cultura commerciale è onnipresente non significa che sia onnipotente
e creatrice di cultura (Es. Nike è riuscita a far assurgere a MJ al ruolo di star mondiale, ma questo
successo si è costruito sulla base delle passioni collettive per lo sport. Negli anni Venti la
pubblicità ha esalato la gioventù piuttosto che la famiglia; oggi sono le marche a essere costrette
a ringiovanire la loro immagine per essere in sincronia con i consumatori. L’era delle mega-marche
mondiale è anche l’era della loro vulnerabilità perché entrato in un periodo di disaffezione e rifiuto.
La fase III poggia più su di un consumatore distaccato e nomade di quanto faccia affidamento su
un consumatore ipnotizzato dalla magia delle marche.

TRAGEDIA DEL SOVRA-CONSUMO?


La “Maledizione dell’abbondanza” si incontra verso gli anni Sessanta, appena viene soddisfatto
un bisogno, subito ne sorge un altro, riattivando il senso di privazione e impoverimenti
psicologico. Una neo-tragicità si è impossessata delle nostre vite: quella della “soddisfazione
perpetuamente insoddisfatta”, infatti si dice che inuma periodo di sovra-consumo, si sogna
sempre ciò che non si possiede, ciò che è più bello e più costoso: anziché godere di un senso di
contentezza, ognuno soffre di non potere avere accesso ai beni di cui godono gli altri. Se
ragioniamo, per esempio, non viaggiare in una BMW non toglie il piacere di cambiare auto. Quindi
dobbiamo sfatare l’idea della maledizione correlata al sovra-consumo: una soddisfazione reale è
chiaramente possibile, anche in uno stato di sovreccitamento dei bisogni. Il piacere non esige
cose o esseri dotati di qualità eccezionali per essere provato. Lo stesso vale per l’esperienza del
consumo: la soddisfazione è sicuramente possibile anche fuori dal quadro di ciò che è più bello e
più costoso. Possedere qualcosa di nuovo dà più soddisfazione del vivere l’esperienza di un
quadro di vita superiore ma ripetitivo e immutato. Le insoddisfazioni non rendono il presente
invivibile o catastrofico.
Penuria, azione e il nostro prossimo
È un’epoca che si dissolve dalle abitudini di classe. Malgrado si esprimano sempre di più desideri
di danaro, per la maggior parte di noi le più grandi felicità e infelicità non sono tanto condizionate
dall’acquisizione delle cose ma piuttosto, dal rapporto con se stessi e il prossimo. Gli europei
mettono i figli, la coppia, la famiglia e l’amore in cima alla lista degli elementi che costituiscono la
felicità. Sono gli altri, molto più delle cose, a suscitare passioni più smodate, gioie ma anche
dolori più grandi. Questa è la ragione per cui il rapporto con gli altri è l’elemento che può erigere i
più grandi ostacoli contro la felicità, ma, allo stesso tempo, impedire alle cose di approfondire
l’abisso dell’insoddisfazione. L’ideale degli uomini non si riduce all’acquisizione-possesso-
godimento delle cose. Desiderano anche agire, lottare, trasformare la percezione immediata della
realtà, realizzare qualcosa che procuri loro un’immagine positiva di se stessi. Tutto questo si
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concretizza nelle opere quotidiane modeste come il lavoro o anche nei progetti più ambiziosi. Il
fatto è che l’individuo non si accontenta di un’esistenza confortevole: ha bisogno di fare,
costruire, superare se stesso, riuscire nel miglior modo possibile in quello che intraprende. Le
priorità del “fare” relativizzano o compensano le frustrazioni “dell’avere”. Non soffriamo tanto dei
tormenti dei consumi ossessivi, quanto, invece, di quella della vita affettiva, intima e
professionale. Le frustrazioni legate al consumo sono limitate, quelle relative all’esistenza
soggettiva e intrersoggettiva si aggravano. In questi tempi ipermoderni, vediamo che
l’incarnazione di Penia è più nella difficoltà di essere di quanto sia nelle sete di oggetti; più nelle
sventure relazionarli con gli altri e se stessi di quanto sia nel rapporto con le cose.

POVERTÀ E DELINQUENZA: LA VIOLENZA DELLA FELICITÀ


Nel corso della fase III la prosperità economica, il pieno impiego lo stato assistenziale parevano
avere rassicurato la liberazione dalla miseria, grazie all’innalzamento generalizzato del libello di
vita. La grande povertà, sebbene ancora persistente, sembrava essere un fenomeno residuo,
mentre l’immagine dominante era quella di una “marea crescente che avrebbe fatto galleggiare
tutto le barche”. Pensa ritorna dolorosamente sulla Terra, mentre alcuni nuotano in un mare di
sfrenata consumatività, altri vedono degradarsi il loro libello di vita, necessità di tagli continui,
umiliazione dall’essere aiutati all’assistenza sociale. L’inferno non è l’interminabile spirale della
consumatività, è l’ipoconsumismo di popolazioni fragili in seno a una società d’iperconsumi.
Emarginazione, consumi e individualizzazione
Le popolazioni svantaggiate della società post industriale non costituiscono più una classe
sociale determinata. Le popolazioni delle inner cities, i quartieri centrali difficili, e delle periferie
degradate condividono i valori individualistici e consumistici delle classi medie e la
preoccupazione di personalità individuale e di realizzazione personale. I giovani valorizzano la
dimensione personale dei loro consumi (abbigliamento, musica e svaghi), quei segni atti a
distinguerli dai loro gruppi di pari. Ormai, anche i meno privilegiati vogliono poter accedere ai
segni emblematici della società degli iperconsumi e sono i testimoni di aspirazioni e
comportamenti individualistici, anche verso la moda. I giovani dei quartieri diseredati cercano di
affermarsi con il look e i segni del consumo. I consumi sono anche intesi come ciò che permette
di sfuggire al disprezzo sociale e all’immagine negativa di sé. Per l’individuo della fase III è sempre
più importante non sentirsi risotto in stato di inferiorità. Da una parte, le norme e i valori
consumerestici sono gravemente interiorizzati dai giovani dei grandi agglomerati delle periferie,
dall’altra, la vita precaria e la povertà impediscono una piena partecipazione alle attività di
consumo e di svaghi commercializzati. Da questa dicotomia scaturisce un forte aumento del
senso di emarginazione e frustrazione, nonché di comportamenti delinquenziali. Il furto è visto
come un mezzo facile per procurarsi denaro e partecipare agli stili di vita dominanti, martellati dai
media. Le devianze giovanili sono una delle conseguenze del fallimento dei movimenti sociali, ma
anche il risultato di un mondo sociale destrutturato e privatizzato dall’impero dei consumi, da
nuovi stili di vita incentrati sul danaro, dal soddisfacimento immediato dei desideri. I giovani
rivendicano la delinquenza come una maniera normale di vivere, in un universo percepito come
una giungla nella quale non possono vivere come tutti gli altri. Gli emarginati dai consumi sono
una sorta di iperconsumatore, ironia della sorte. Gli individui meno tutelati cercano compensazioni
nei consumi, nell’acquisizione di beni e servizi di comfort, a volte anche a discapito di ciò che è
più utile (Es. Parabola nelle Favelas Brasiliane). Se da una parte, grazie ai consumi, la fase III è
una formidabile macchina di socializzazione, dall’altra, disorganizza i comportamenti di intere
categorie di popolazione, incapaci di adattarsi alla povertà e di resistere alle sollecitazioni
dell’offerta commerciale. Nella fase III, gli “have nots”, chi non ha, non si sentono poveri solo
perché sotto-consumano bene svaghi, ma anche perché sovra-consumano le immagini del
benessere commerciale. Sia in questo modo “felice” che la televisione esercita l’impatto più forte
sull’aggressività dei giovani e non attraverso l’inflazione mediatica di scene violente, come a volte
viene affermato. La televisione della fase III è anche il mezzo che espone proprio i più vulnerabili
alla violenza delle immagini di felicità consumeristica.
Precarietà e individualismo selvaggio
Impennata di violenze che è fondamentalmente da ricondurre a una criminalità legata
all’emarginazione, che a sua volta conce con aumento della disoccupazione e della precarietà di
massa. Negli USA l’aumento della criminalità è dovuto ai giovani neri degli ambienti difficili che si
abbandonano a condurre guerre sanguinose per il mercato della droga. Senza lavoro ed
emarginata, anche Penia si lascia trascinare dalla delinquenza violenta. Lo sviluppo della violenza
contemporanea è da attribuirsi ai minori e ai giovani adulti degli ambienti diseredati. Una gioventù
sempre più abbandonata a se stessa, priva di punti di riferimento, dimostra di possedere una
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minima capacità di sopportare frustrazione e vincoli. La spirale della violenza giovanile rivela la
mancanza di limiti simbolici, perdita delle inibizioni, calo della soglia di tolleranza alla frustrazione.
Le violenze che si diffondono non sono più solo una conseguenza meccanica delle
destrutturazioni liberai, ma anche uno dei mezzi che i giovani dei quartieri emarginati mobilitano
per affermarsi, imporsi, compensare i loro insuccessi scolastici, gestire la loro inferiorità sociale.
La violenza funziona sia come una strategia strumentale di acquisizione dei beni commerciali sia
come un veicolo di distinzione personale, tramutando un fallimento in valorizzazione di sé. La
violenza permette di trasformare la disperazione in affermazione soggettiva, in carta d’identità,
fonte di considerazione e gratificazione in certi ambienti. Si tracciano non due, ma tre profili di
individui ipermoderni: all’individualismo per eccesso e all’individualismo per difetto, la fase III
vede crescere quello che potremmo definire l’individualismo selvaggio che associa logica di
carenza (povertà, fallimento) e logica di eccesso (odio, violenza). Ovviamente, l’individualismo
selvaggio non coincide con l’individualismo dei vincenti ma nemmeno si riduce all’individualismo
negativo o subito: questo è improntato al vittimismo, l’altro invece cerca modalità di azione
illegittima e di affermazione di sé proprio per scongiurare l’immagine o la condizione di vittima.
Miseria materiale, miseria interiore
Avendo vissuto un processo di socializzazione in una esistenza non miserabile, i più svantaggiati
vivono in maniera particolarmente dura il fatto di essere precipitati nella precarietà economica. La
povertà è anche ciò che svilisce il rapporto con se stessi e la vita in generale, favorendo l’ansia, la
depressione, la mancanza di stima in sé. La povertà materiale è vissuta come mancanza di
autonomia e progetto. Nella società degli iperconsumi, la precarietà aggrava lo smarrimento
psicologico, la sensazione di aver fallito nella vita. Per le classi mobili e socializzate dal lavoro, le
frustrazioni puramente materiale sono in calo; per quelli di sotto si aggravano, generando la
sensazione di vivere una vita che non è una vita. Questa è la visione della civiltà del benessere, il
suo nuovo calvario. La nuova precarietà è vissuta come una crisi d’identità, un’esperienza
umiliante, deprimente. Allo stesso modo, la dipendenza dai servizi di assistenza sociale si traduce
spesso in un sentimento di scadimento e umiliazione. Nella società degli iperconsumi la
situazione di precarietà economica, non genera solo nuove prove di privazioni materiali su larga
scala, ma diffonde anche una sofferenza morale, la vergogna di essere diverso. Se per gli uni la
fase III significa avere sempre di più vivere più a lungo, per gli emarginati crea, al contrario, la
sensazione di vivere meno e di essere da meno.

AFFLIZIONI E RINASCITA
La fase III ha accentuato ancora di più le ombre della felicità, e la riprova sta nella portata delle
inquietanti relative al futuro, nel brulicare delle frustrazioni del cuore, nelle ondate di sconforto. Il
prezzo da pagare per il benessere è alto e sembra che le scontentezza e la mala-vita vadano di
pari passo con l’arricchimento delle nazioni. Più trionfa il consumo-mondo, più si moltiplicano i
disturbi mentali, più cresce la sofferenza psicologica, la fatica di vivere. L’infelicità della fase III è
stata ricondotta a al cosmo dell’iper-competitività, la cui caratteristica è di rendere l’individuo
sempre più responsabile di se stesso. Anche se la socializzazione “dura” e i grandi flagelli del
passato sono scomparsi, la vita non è, comunque, diventata più facile, poiché ha smesso di offrire
la sicurezza d’identità e quei sostegni comunitari che prevalevano in precedenza. La rivoluzione
dei consumi abbandona gli individui a se stessi e loro devono affrontare le difficoltà dell’esistenza
senza poter beneficiare delle regole e dei sostegni collettivi. Sotto un diluvio di inviti a godere la
vita, si approfondisce irrefrenabilmente il divario tra le promesse dell’Eden e il reale, le aspirazioni
alla felicità e l’esistenza quotidiana. Spingendo i singoli a giudicare e confrontare il loro vissuto
con il metro dell’immagine della felicità euforica, sempre nuova e intensa, la civiltà del benessere
alimenta su scala di massa le frustrazioni e i malesseri esistenziali. Un altro fattore sta alla base
dell’epidemia ipermoderna del mal-essere: le modificazioni dell’educazione familiare. In poche
parole, l’educazione di tipo tradizionalista e autoritario è stata sostituita da un’educazione
psicologizzata, “senza obblighi, né sanzioni”, volta alla piena realizzazione del bambino. Non più
addestrare e punire, ma fare di tutto affinché il bambino non sia triste ed insoddisfatto, non
trovarsi mai nella situazione di dire no e avere dei litigi con lui. Questo tipo di educazione tende a
privare i bambini di norme, schemi ordinati e regolari, necessari alla strutturazione psichica.
Mentre il bambino tende a perdere la capacità di superare le frustrazioni, l’adulto è sempre meno
preparato ad affrontare i conflitti, a sopportare i rovesci dell’esistenza e lo shock delle circostanze.
Durkheim concludeva il suo studio sul suicidio “Il malessere di cui soffriamo non scaturisce
dunque dal fatto che le cause oggettive di sofferenza sono aumentate in quantità o intensità: è
invece prova non di grande miseria economica, ma di un’allarmante miseria morale”.

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La vita ricominciata
Se gli effetti distruttori e deprimenti della società di iperconsumo non possono venir messi in
dubbio, ne esistono altri che aprono prospettive meno sinistre. La nostra epoca è quella in cui la
maggioranza della gente ha più speranza di poter “giocare un’altra mano” e di ripartire su nuove
basi. Se, da una parte, essa moltiplica le ragioni che generano depressione, da un’altra offre
svariati strumenti di diversione e di stimoli mirati a un “giro di carte”. Non tutto è catastrofico nella
società del desiderio poiché Pensa si sposa con il dio Ermes. Spalancando l’avvenire e le opzioni,
le nostre società ri-ossigenano il presente vissuto, aumentano le possibilità di essere rimessi in
pista, di riprendersi, di rifarsi una vita. Mentre le insoddisfazioni abbondano, le occasioni di
liberarsene sono sempre più frequentemente a nostra disposizione. Non terra promessa, né per
sempre valle di lacrime, la società di iperconsumo è una società di smarrimento e di stimoli, di
afflizioni e di rinascita soggettiva.

8) DIONISO: SOCIETÀ EDONOSTICA, SOCIETÀ ANTIDIONISIACA


Al posto di disciplina, famiglia o lavoro, la nuova cultura celebra i piaceri del consumo e della vita
declinata al presente. L’uomo del nuovo tipo è solo apparentemente ossessionato dalle “cose”:
quello che si aspetta, in verità, è solo una sovrabbondanza di essere. Ebbro di consumi, travolto
da un Torrente di sollecitazioni, in caccia di viaggi e ciò che è insolito, di trasgressioni, l’uomo
dionisiaco non ha altro scopo se non quello di infrangere i limite del suo Io, liberandosi di ogni
centralità e soggettività, in un parossismo di sensazioni e pulsazioni del desiderio. Il grande
desiderio di Dioniso è di evadere da se stesso, ripudiare l’Io, immergendosi nell’informe, nel caos,
facendosi inghiottire dall’oceano delle sensazioni illimitate. Liberarsi dalla prigione dell’Io, dei
dolori dell’individuazione, fare esplodere il “principium individuationis”: questo è ilsensi profondo
dell’uomo dionisiaco, sia egli di ieri di oggi. In questo nuovo periodo: si rifiuta l’autorità e la
guerra, i valori competitivi, il puritanesimo. Subentra l’esaltazione del corpo, il culto della
marijuana e degli acidi.

LA SACRALITÀ DELLE PICCOLE FELICITÀ


Lo spirito trasgressivo è passato di moda, la rivoluzione sessuale è solo un vecchio ricordo, le
tematiche della sicurezza e della salute invadono la vita di tutti i giorni: nuovo spirito del tempo
che non impedisce in alcun modo a una sociologia quotidiana di richiamare il paradigma
dionisiaco, sottolineando la forza dell’edonismo e del sensismo delle consuetudini. In una cultura
che si abbandona ai piaceri sensoriali e ai desideri del godimento è l’intera vita sociale e
individuale che si dice, si avviluppa in un alone “orgiastico”. Edonismo dionisiaco manifesto delle
feste ma anch’ella vita quotidiana con i consumi, la moda, svaghi, attraverso emozioni e
atteggiamenti comuni, dominati da una “uscita estatica da sé”. Dalla vita normale ai grandi
momenti di effervescenza collettiva, le società contemporanee si contraddistinguerebbero
attraverso la forma dionisiaca, interpretata come l’esaurimento del principio di individuazione e
correlativo aumento della tribalizzazione affettiva, delle emozioni vissute in comune, degli
atteggiamenti collettivi.
Il quotidiano ricreativo
Centri commerciali, mercati, mercatini, tutto incita al desiderio, tutto appare offerto ai desideri e
dato in eccesso. Una sorta di atmosfera di dissolutezza gioiosa impregna i luoghi e tempi del
consumo sovreccitato. La città industriale era concepita per la produzione, quella post industriale
per i consumi e gli svaghi, i centri storici sono convertiti in quadri scenografici grazie a fontane,
parchi, sculture. L’edificio antico è convertito in museo.Ecco il momento della città dedicata al
convivio, all’ozio, al divertimento: dopo quella produttiva, la città edonistica, che respira la facilità,
l’abbondanza, la negazione tipicamente dionisiaca del lavoro.L’intera vita quotidiana vibra di inni
ai divertimenti, ai piaceri del corpo e dei sensi. Seduzione pubblicitaria, città ricreativa, febbre di
svaghi, follia vacanziera, tutte caratteristiche che, indubbiamente, accennano alla felicità
dionisiaca, al suo universo contrassegnato da abbondanza e piaceri, spensieratezza e amnesia
lavorativa.
Svaghi e tempo per sé
Forse fioriscono i sentimenti di spirito di appartenenza a una comunità, ma, allo stesso tempo, le
aspirazioni individualistiche prendono lo slancio di un’ondata irresistibile. Il modello di felicità della
società degli iperconsumi è diametralmente opposto: alle gioie collettive della comunità riunita e
scatenata sono succeduti i piaceri privati del consumo degli svaghi. Viaggi, turismo, sport, tv,
cinema, uscite con gli amici: l’elemento dominante è costituito dalla diffusione e dalla pluralità dei
piaceri, scelti secondo i gusti soggettivi. Individualizzazione non significa isolamento o anche solo
tenersi in disparte dalla comunità: l’iperconsumatore è sempre alla ricerca dei bagni di folla, dei
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piaceri del live, di ristoranti e luoghi alla moda. Tanto la gente fa orrore, tanto serve da stimolo e
ingrediente dei piaceri consumistici. L’iper-individuo non è dionisiaco, consuma atmosfera
dionisiaca strumentalizzando il collettivo per le soddisfazioni private. Attraverso lo svago, si forma
il consumo relativista e pluralista dello “ognuno ha i suoi gusti”. Anche se numerosi tipi di svago si
vivono in micro gruppi o comportano un’atmosfera collettiva, non dimentichiamoci che è la
propria casa a rappresentare il luogo privilegiato per svaghi e distensione. Guardare la tv, navigare
o utilizzare il cellulare, occupa gran parte del tempo libero di una persona. La sociologia del
quotidiano ci serve un Dioniso dozzinale, meno assorbito dall’inseguimento dei godimenti sfrenati
di quanto lo sia invece dai consumi mediatici, meno avido di baccanali frenetici che di tranquille
felicità domestiche. L’ideale no è più quello di dissolvere l’Io in iconoclastie inebrianti, ma di
ritrovare la felicità nell’equilibrio, raggiungere l’armonia interiore, vivere in pace, sani e in forma.
Era delle comunità, era degli individui
La principale teoria proposta dagli incensatori di Dioniso è che siamo travolti da un’ondata di
modernità, la cui tipica connotazione è di non essere più contraddistinta dall’individuo, ma dalla
sua dispersione in adunanze specifiche, in insiemi collettivi, in micro gruppi dove primeggiano i
valori di godimento e le emozioni vissute in comune. Là, dove predominava l’atomizzazione
individualistica, oggi s’imporrebbe una nebulosa si piccole comunità, animate da comunioni
intense di affezioni e sentimenti condivisi. Piccoli gruppi, clan e associazioni: ecco il fenomeno
presentato come il segno stesso del carattere sorpassato dall’individualismo, della vittoria del noi
sulle orbite singole, della nuova preminenza del collettivo sull’individuo. L’appartenenza alla
comunità è ormai scelta, rivendicata, manifestamente dichiarata come una maniera di se stessi,
come un veicolo di identità personale. Il riferimento alla comunità è diventato una “tecnologia del
Sé”. Non è tanto una realtà oltre il singolo che si manifesta ma, piuttosto, una strategia personale,
una strumentalizzazione del gruppo ai fini di una valorizzazione e affermazione di sé. Non è
l’evasione da se stessi attraverso emozioni e coesioni collettive a predominare, bensì l’Homo
Individualis, che dispone di se stesso fino alla definizione sociale di sé. Nulla è più imposto
dall’esterno, adesione e uscita sono libere, a geometria variabile, fuori da costrizioni istituzionali.
Dietro ai “noi” comunitari, opera l’individuo al comando di se stesso. I comportamenti e le
emozioni di gruppo non devono nascondere la forte tendenza alla privatizzazione dei consumi e
degli svaghi, acqui acquisti oculati e programmati nel tempo, di un individuo che mal sopporta la
promiscuità della folla, che si irrita per l’attesa alle casse che si informa e confronta i prezzi.
Davvero gli svaghi e i templi dei consumi sono fattori di comunione? La verità è che più che
generare l’unione dei membri di una stessa comunità, riconducono maggiormente l’individuo a se
stesso.

COMFORT E BENESSERE DEI SENSI


La felicità non è una idea nuova, ciò che è nuovo è aver associato la sua conquista alle comodità
di vita, al progresso. Il paradiso non è più nell’altro mondo, ma quaggiù, grazie all’intelligenza e
all’inventiva degli uomini stessi. Con la modernità, la felicità dell’umanità si identifica con il
progresso delle leggi, della giustizia e delle condizioni materiali dell’esistenza. Il benessere si
impone come il nuovo orizzonte dei sensi. Non è più il cambiamento di se stessi ad apparire, ma
la trasformazione del mondo, l’abbellire la vita, sconfiggere le epidemie e allungare la durata
media della vita, procurare sempre più soddisfazioni materiali. Quello che noi chiamiamo comfort
costituisce una delle grandi immagini del benessere moderno. In una società impegnata a
regolamentare e normalizzare le installazioni tecniche dell’habitat con il fine di definire un “minimo
confortevole” promesso a tutti: superficie abitabile, riscaldamento centralizzato, bagni all’interno
della casa. Negli anni del boom il comfort si è imposto come una preoccupazione sempre più
importante, presente in tutto il corpo sociale, sia oggetto di consumo massa, destinato a essere
rinnovato, sia un’immagine paradigmatica della felicità individualistica di massa. Dopo il comfort-
lusso, tipico della fase I, la fase II ha promosso sia l’immaginario del comfort-libertà sia il comfort-
evasione. Ora il comfort è diventato il simbolo centrale della felicità-riposo, dei godimenti facili,
resi possibili dall’universo tecno-commerciale.
Dal comfort tecnicistico al benessere emotivo
Sono nate altre esigenze che disegnano una nuova cultura del comfort, quella terza età del
comfort democratico che si coniuga con uno “slittamento” dei valori, dell’immaginario, una ri-
definizione delle norme per l’uso. I segni di questo aggiornamento sono multiformi e riguardano
sia lo spazio pubblico sia lo spazio domestico. Riguardo al primo, la fase III vede affermarsi la
riqualificazione dei centri cittadini, l’abbellimento estetico del paesaggi urbano, la demolizione dei
grandi agglomerati, il miglioramento dei trasporti pubblici, la preoccupazione per l’ambiente, la
protezione dei paesaggi e del patrimonio comune. Tutti questi fenomeni non solo indicano la
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comparsa di nuovi spazi del comfort, ma anche quella di nuove priorità meno tecnocratiche che,
tenendo conto della qualità del vissuto dei fruitori, permettono un approccio più sensitivo al
benessere, all’habitat e agli oggetti. Un’espressione riassume questo slittamento: qualità di vita,
intesa come nuova frontiera del comfort, il nuovo obiettivo centrale della fase III. Il comfort minimo
non è più sufficiente, dato che le innovazioni e ristrutturazioni devono contribuire allo sviluppo
della piacevolezza del quadro di vita. Il modello dominante del comfort moderno era tecnico
funzionalistico; quello che segue vuole essere un comfort di diletto e piacere, un comfort più
individualizzato, sentito, interiorizzato, capace di procurare sensazioni gradevoli, Non è più solo
questione di andare più in fretta, di liberare il corpo da vincoli, di dotare gli alloggi di impianti
sanitari, ma anche di promuovere dei dispositivi che procurino piaceri sensitivi ed emotivi. Più si
afferma il comfort-mondo. Più si afferma il comfort-mondo, più si cancella Dioniso. Non lo
stemperasi del soggetto nei gruppi o il cos pulsionale, ma l’ideale di un quadro di vita
confortevole del quale l’individuo deve appropriarsi personalmente per potersi sentire dentro di
sé, bene o meglio.
L’amore per la propria casa: il comfort nel comfort
C’è un nuovo orientamento del comfort. Si radono al suolo i grattacieli e si ripristinano e
rivitalizzano i centri della città. L’orientamento quantitativo della fase II ha finito il suo tempo; oggi
l’ideale si identifica con la protezione del patrimonio e la ricerca del benessere urbano, con
ristrutturazioni diversificate che permettano di riappropriarsi consapevolmente, giocosamente e
convivialmente dello spazio. È un’epoca che vede dilagare una marea di villette. Grazie al gusto
per questo tipo di casa, non si esprime più un desiderio classico di dimostrazione di successo
sociale, ma, piuttosto si rivela l’importanza attribuita alla qualità di vita, che si amalgama con la
tranquillità, con l’autonomia di ciascuno, con la sicurezza dell’ambiente residenziale. Intolleranza
nei confronti dei fastidi dovuti ad altri, gusto per l’intimità, maggior bisogno di sicurezza: tutti
questi fattori hanno comportato un sovra-investimento nella casa mono-familiare, la scelta di
vivere lottano dalla città. Vissuta come una “bolla” che protegge contro l’esterno, la casa è uno
dei mille segni della spinta di un neo-individualismo che non significa un ripiegamento autarchico,
ma l’aspirazione all’intimità, la ricerca di piaceri protetti, il rifiuto di un ambiente umano subito e
asfissiante. Nella fase III, le aspettative sono cresciute: maggiore attenzione alla luminosità,
esposizione della casa, alla natura. La passione dominante dell’iperconsumatore non di perdersi
in coesioni orgiastiche, ma di vivere meglio “a casa tua”, in un quadro che risponda alle nuove
esigenze di sicurezza, intimità, realizzazione personale. Il bagno, fino a poco tempo fa essenziale
ed esclusivamente luogo d’igiene, comincia a diventare uno spazio di relax e piacere, corredato di
attrezzature sensualistiche (doccia multigetto, vasca idromassaggio), di accessori con valore
estetico e di tutta una serie di prodotti cosmetici. Una maggiore attenzione poi è dedicata alla
qualità dell’arredamento. Il ciclo precedente si è sviluppato intorno alla funzionalità e alla
razionalità pura: non è più così, Il comfort ipermoderno ha valore solo nella misura in cui trasmetta
valori sensibili e tattili, un benessere olistico, sensitivo ed estetico. Dopo la tecnicizzazione fredda
del comfort, ecco la sua edonizzazione, la sua soggettivazione e la sua poli-sensualizzazione. Ciò
che si afferma si mescola al desiderio di un comfort al quadrato: un comfort nel comfort, che non
si contraddistingue più solo esclusivamente per i criteri oggettivi di risparmio di tempo e fatica,
ma per qualità percepite, edonistiche, estetiche e sensitive. La gente passa sempre una maggiore
quantità di tempo a casa. Affinché la casa non dia un’impressione di qualcosa di impersonale,
l’iperconsumatore “cerca oggetti da rigattiere” nelle fiere di anticaglie, mescola gli oggetti,
coniuga gli stili, al fine di ottenere un arredamento personalizzato. L’arredamento della casa si è
distaccato dall’imperativo dell’ostentazione a beneficio del valore dell’atmosfera: alla logica della
dimostrazione di status succede una logica di seduzione affettiva, intimizzata, intra-familiare. Si
modificano anche gli interni, dopo l’arredamento-prestigio, ecco la casa edonistica e conviviale,
creata da un individualismo decorativo di massa. Il comfort della fase III è associato all’attività
decorativa e all’appropriarsi della casa più di quanto lo sia alla passività del consumatore. I modi
di arredare non sono privi di un legame con l’appartenenza a una classe sociale. Resta il fatto che
le regole del gruppo non sono più un ostacolo allo sviluppo degli atteggiamenti e dei gusti del
singolo. Alle regole severe del buongusto seguono modalità di decorazione e arredamento libere,
che rivelano il desiderio di affermarsi come il creatore del luogo dove si svolge la propria vita. La
fase III vede trionfare la psicologizzazione del rapporto estetico con la casa, lo sviluppo di una
relazione affettiva.
Comfort, collegamento e sicurezza
Le famiglie che si trasferiscono nei quartieri appena fuori città, adducono spesso il desiderio di
vivere in un ambiente sociale che non comporti rischi. Il bene benessere non è più concepibili
senza sicurezza. Non sono tanto gli affetti tribali a ridisegnare la vita sociale e individuale, quanto,
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invece, le preoccupazioni di sicurezza, il desiderio di sfuggire a qualcosa, la ricerca di un vicinato


rassicurante e di spazi privati protetti. L’edonismo del comfort progredisce parallelamente a
un’inflazione di preoccupazioni per la propria sicurezza. L’attenzione è ora sulla “diagnostica della
salute della casa”: bisogna prevenire l’inquinamento all’interno; essere consapevoli dei prodotti
chimici rilasciati dai materiali di costruzione, ridurre l’esposizione alle particelle nocive, smaltire le
sostanze biologiche. Se prima era sinonimo di vita nella bambagia e tranquilla, oggi la dimora
richiede sia sempre maggiori misure di prevenzione sia la vigilanza attiva degli iperconsumatori
ansiosi. Con la nuova era dell’elettronica, il comfort è più focalizzato su ciò che favorisce la
comunicazione, l’istantaneità degli scambi, la scioltezza nella emissione e nella ricezione dei
messaggi, di quanto lo sia sull’eliminazione di sforzi pesanti. Le nuove tecnologie non si rivolgono
al corpo-macchina, né al corpo delle sensazioni, bensì ad un Homo Communicans, collegato in
rete, interconnesso, che può essere raggiunto ovunque e in qualunque momento. Il modello del
comfort-riposo arretra sotto la concorrenza del benessere-collegamento o connesso, che procura
la soddisfazione di non sentirsi tagliati fuori dal mondo, di essere permanentemente collegati con
con l’esterno, di avere immediato accesso illimitato alle informazioni, alle immagini, alla musica. Il
cyberspazio crea un nuovo genere di comfort, un comfort di terzo tipo contraddistinto da
caratteristiche iper-private e, al contempo, iper-pubbliche. Anche se, certo, il desiderio di evitare
fatica permane, è giocoforza osservare che la nostra epoca è ossessionata da rapidità e
compressione dello spazio-tempo: telefax, e-mail, motori di ricerca, GPS. Ciò che noi definiamo
benessere materiale assomiglia sempre di più a un comfort-tempo che ignora le pause e la
lentezza. Se è vero che la problematica della qualità è proprio al centro della fase III, è giocoforza
osservare che l’escalation del sempre di più non è assolutamente terminata. L’ideale del meglio
non ha retrocesso nemmeno di un gradino la cultura del più generata dall’universo tecno-
commerciale: queste due logiche si sviluppano contemporaneamente. Ironia dell’epoca: più sono
celebrati i valori sensibili e più assistiamo a un’orgia di digitale, di velocità e d’istantaneità. Il
benessere della fase III si costruisce all’insegna della sintesi ipermoderna delle logiche qualitative
e di quelle iperboliche conquistatrici.
Il design polisensoriale
Anche l’universo degli oggetti e delle forme illustra la nuova era del benessere. Homo
Consumericus non si è miracolosamente trasformato in maestro di saggezza: semplicemente, il
caos dionisiaco è stato delegittimato, detronizzato dall’atteggiamento zen. Il design
contemporaneo dimostra una nuova predilezione per gli oggetti dalle linee ovoidali, che creano un
universo dolce, materno e accogliente. Un pò ovunque il design riabbraccia la rotondità. Se il
design della modernità prima maniera era angoloso, quella della seconda si vuole amichevole,
femminile, non aggressivo, in risposta al bisogno di maggior ben-essere e di un ambiente
circostante rassicurante. Anche il mobilio concretizza la nuova cultura del comfort, il comfort
borghese viene declassato a vantaggio di mobili molto bassi, di moquette e cuscini che
permettono di sedersi per terra. Se una tendenza del design contemporaneo privilegia lo humour
e la fantasia, un’altra, di più ampio pubblico, valorizza uno stile semplice e caldo, come i mobili
scandinavi in legno biondo e dai colori chiari. Lo stile borghese sovraccarico di elementi
decorativi e di arredi stipati è finito. Il design ipermoderno privilegia la leggerezza. Dagli anni
Novanta, vediamo svilupparsi un design di tipo polisensoriale, che, donando impressione di
comfort e sensazioni di piacere, ha come scopo di ottimizzare la dimensione sensoriale dei
prodotti. Ormai non si contano più i prodotti che vogliono creare sensazioni tattili, auditive e
olfattive; non si accontentato più di essere efficacemente funzionali, devono risvegliare il piacere
dei sensi e offrire una qualità di suono e profumo, fornire un supplemento di realtà tattile. Più si
afferma la cultura del non-reale digitale e più diventa intenso il bisogno dello spessore sensoriale
delle cose, il soft touch, il gusto e l’intento della sensualità dei materiali. L’ambizione al design
cerca di offrire un ambiente accogliente e confortante, un comfort ipermoderno che riconcili il
funzionale con il vissuto emotivo, l’efficienza e le necessità psichiche dell’uomo. L’oggetto non è
più un inno alla razionalità costruttivistica e meccanicistica, ma alla felicità sensitiva, che
comporta un comfort dal volto umano, appropriabile e abitabile.

BERE E MANGIARE
Dioniso ha aperto il paradiso del selvaggio, donando agli umani “la felicità suprema del
baccanale”, con i riti dell’abbondanza e la gioia dei festini sfrenati. Questo modello ha avuto una
vita molto lunga, ancora negli anni Cinquanta, una “buona tavola” significava un pasto copioso e
ricco. Nelle grandi occasioni di festa le bevande dovevano scorrere a fiumi, poiché la “buona
vita”, nel senso popolare, comportava libagioni allegre ed eccessi di piacere del palato.

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Un Gargantua che si vergogna


Indubbiamente questo epicureismo non è più di rigore, ora si seguono diete e non si fa più
bisboccia. La nostra epoca acclama la magrezza. D’ora in poi ci aspettiamo cibi che migliorino la
salute. Sempre di più, l’alimentazione viene considerata un mezzo di prevenzione, vale a dire, di
cura di alcune malattie: salute, longevità, bellezza sono diventate i nuovi referenziali che
inquadrano il rapporto con la tavola. Una tendenza analoga ha trasformato i comportamenti del
bevitore. Ci sono campagna per la lotto contro l’alcolismo, repressione della guida in stato di
ebbrezza. La società d’iperconsumo non si associa a una nuova formula del dionisiaco ma, al
contrario, alla sua dequalifica assoluta, attraverso la sensibilizzazione nei confronti dei rischi.
L’eccesso era equiparato a un collante sociale e a un momento di felicità esuberante: è diventato
una minaccia per se stessi e gli altri. Ora, nella fase III, bisogna informarsi, vigilare sulla qualità,
sorvegliare il contenuto di ogni piatto, il mangiatore prende coscienza dei rischi e corregge le sue
abitudini. La cultura dionisiaca è privata del suo stesso principio: bere e mangiare sono entrati
nell’era della riflessività e della responsabilità individuale.
Piaceri di gola e cucina ipermoderna
Mai come adesso, la gastronomia, gli chef, i ristoranti e il buon vino, sono stati tanto commentati,
monitorati e celebrati dai media. I marchi di qualità (DOC, BIO) attirano un sempre più vasto
pubblico di consumatori. La felicità per il cibo non trova più la sua piena espressione nei banchetti
smodati, ma nella sua sensualità della degustazione e nella ricerca della qualità del gusto. Sempre
più l’iperconsumatore cerca il piacere nella varietà, nel cambiamento, nella scoperta di posti e
pietanze nuovi. Dopo la nouvelle cuisine fondata sul rifiuto di salse ricche e fondata
sull’esaltazione dei prodotti, la fase III mette al posto d’onore il fooding, l’arte di mangiare con
creatività e raffinatezza, e il world food, la cucina che coniuga e mescola i sapori. L’alimentazione
conquistata, a sua volta, dalla forma-moda, che trasforma il pasto in entertainment. Cucina-moda,
concepita in un laboratorio, consiste nello sperimentare gustative inedite. Nella società degli
iperconsumi non basta più assaporare le pietanze, la tavola deve essere occasione di viaggio.
L’eclisse di Dioniso non significa regressione dei piaceri sensoriali, bensì sviluppo di una cultura
edonistica seconda la legge della varietà, del cambiamento accelerato, della fantasia-spettacolo.
Un certo tipo di piacere muore, altri nascono, e non sono migliori né peggiori di quelli dell’età
degli eccessi della tavola. Germoglia una nuova civiltà della felicità sensibile: non c’è da piangere
la scomparsa di Dioniso.

IL TRAMONTO DEL CARPE DIEM


Tutto è in grado di alimentare le sensazioni di inquietudine. Mentre non si crede più ad un avvenire
necessariamente migliore del presente, aumentano le nuove paure legate al presente e al futuro.
Più si afferma la felicità edonistica, più si accompagna a timori e tremori. Non è tanto il carpe
diem a propagarsi, quanto, invece, la sensazione di insicurezza. In verità, il culto dell’attimo non è
davanti a noi: sta tramontando.
Il trionfo del Dottor Knock
Nulla invalida il modello presente-ista quanto l’amplificarsi delle preoccupazioni relative a salute e
malattia. Nel momento in cui le spese per la salute conoscono una crescita esponenziale, gli stili
di vita e di consumo si medicalizzano: questo processo ha trasformato le aspettative, le priorità, il
modo di vivere di tutti. In questo contesto, si allunga la lista degli elementi che generano paure e
ansie. Le condizioni sanitarie possono essere più sicure che mai, ma le minacce sono sentite
ovunque, tutto costituisce un pericolo. L’edonismo degli stili di vita si sviluppa solo sulla base
della drammatizzazione della salute e dell’igiene. Il desiderio di conservarsi in salute non è nuovo.
La novità sta nel posto che la prevenzione occupa nelle politiche e nelle pratiche della salute: non
si tratta più solo di guarire i mali, ma di prevenirli e intervenire al primo stadio delle situazioni
critiche. Il ruolo della medicina è quello di far cambiare i comportamenti nei confronti della
abitudini a rischio, insegnare a tenersi sotto controllo. L’obiettivo perseguito è di estendere le cure
mediche a tutti, anticipare il futuro, allettare le persone prima della comparsa dei sintomi. Non è
più il diletto del carpe diem che si preannuncia, è il dottor Knock. Questa è l’ironia della civiltà
edonistica, che non conduce tanto a degustare l’attimo, quanto a proiettarsi all’infinito nel futuro.
Alla febbre della liberazione, subentra l’ossessione della prevenzione; all’estasi dell’attimo fa
seguito il culto della autoconservazione. L’ideale perseguita dall’iper-individuo non è tanto quello
del godimento, quanto quello della salute. Narciso ha trionfato su Dioniso, ma un Narciso meno
vigile, meno preso dalla sua bellezza e più preoccupato del suo aspetto e della sua salute.
Narciso consulta medici e specialisti, si protegge. Non è più Homo æstheticus ma diventa Homo
Medicus. Per questo motivo bisogna contestare i sociologi che interpretano la cultura
contemporanea sotto il segno di un presente-isso destinato alla celebrazione dei piaceri vissuti
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giorno per giorno. La società degli iperconsumi conduce a tutto, salvo al pieno coincidere del
presente con se stesso. Invece della riconciliazione con l’attimo, la fase III comporta un rapporto
problematico e ansiogeno con se stessi e il tempo immediato. È così che la civiltà edonistica è
meno associata alla leggerezza del vivere di quanto invece lo sia alla riflessività e alla sensazione
della complessità della vita. Si è ben lontani dal pascersi del momento che si trascorre e dei
piaceri come vengono, ora c’è una cultura preventiva, ansia per la salute e l’estetica, tensione per
le esigenze del presente e quelle del futuro.

ORGE HARD, SESSO SAGGIO


Il liberalismo sessuale che accompagna lo sviluppo della società dei consumi ha partorito il
“sesso selvaggio”. Il porno non è più relegato nei sex-shop o sulle riviste specializzate, ma inonda
gli schemi dei computer, imponendosi anche a chi non desidera accedervi. L’attività sessuale
comincia più presto, i tabù sono più fragili, praticamente nulla è proibito, eppure, a conti fatti, le
abitudini sessuali sono tutto salvo sfrenate. Nè orgiastico, né puritano, il modello dominante è
quello di un edonismo moderato, poco eccessivo, “ben temperato”, per molto tempo, il codice
d’onore e la morale religiosa hanno rappresentato le forza maggiori per il controllo delle pulsioni
sessuali. Questa epoca è finita. È in questo modo che, al di fuori di qualunque principio morale, il
valore riconosciuto all’amore e al sentimento, la ricerca di un’intimità relazionale, il bisogno di
significato profondo nella vita e nel rapporto con l’altro fanno sì che sia privilegiato un legame
stabile piuttosto che la dispersione e la promiscuità sessuali. La relazione sentivate permette di
realizzare una delle aspirazioni più profonde delle persone: essere riconosciute come una
soggettività impermutabile. All’origine della mancanza del gusto per i rapporti sessuali miscellanei
si trova il desiderio preminente di contare per qualcuno, il piacere di essere soggetto di attenzione
tutta particolare, di esistere per l’altro come persona “privilegiata”. Malgrado le incitazioni
perpetue a spassarsela, Narciso ha avuto la meglio su Dioniso.

NOTTI D’EBBREZZA E GIORNI DI FESTA


Anche se antidionisiaca, la società degli iperconsumi non è evidentemente riuscita a sradicare
tutte le forme di ebbrezza, tutte le ricerche di estasi, di trance e di sensazioni esacerbate.
Droghe, destrutturazione e criminalizzazione
I bassi costi dei numerosi prodotti naturali, lo sfaldamento degli schemi morali, ansie sempre più
diffuse, hanno provocato una forte espansione sociale dei paradisi artificiali. L’epoca
dell’iperconsumo è quella della banalizzazione del ricorso degli stupefacenti. Godimento
dell’ebbrezza, consumo di massa delle droghe, stordimento nel corso di feste techno: per quanto
innegabili, questi dati non ci autorizzano però a innalzare Dioniso a mito emblematico della nostra
epoca che, ben lungi dal rendere omaggio alle estasi frenetiche, al contrario, si contraddistingue
per la demonizzazione degli stupefacenti, per la crociata planetaria, la guerra ideologica e legale
contro di essi. Dioniso era il dispensatore di gioie e ricchezze, ammiccava all’età dell’oro: oggi le
droghe sono associate all’inferno della dipendenza e della morte, al carcere a al crimine. Alcuni
studi stabiliscono una stretta correlazione tra l’impennata di violenze giovanili e lo sviluppo del
mercato della droga. L’esplosione sociale delle droghe dimostra l’indebolimento dei fattori di
coesione, la frattura sociale e la potenza delle reti criminali internazionali più di quanto rappresenti
il riaffiorare della felicità dionisiaca. Nelle esuberanze estatiche le collettività tradizionali si
rinsaldavano, mentre ora la droga favorisce l’aumento della criminalità violenta, l’indurimento dei
sistemi repressivi e di conseguenza l’aumento della popolazione carceraria. L’uso di oggigiorno
delle droghe non si riallaccia soltanto a motivazioni edonistiche, ma è anche una specie di
automedicazione, al fine du sfuggire alla difficoltà di essere se stessi, di inserirsi e di comunicare.
Alla base dell’impennata dell’uso di droghe si trova la spinta delle forze di destrutturazione e
sociale e psichica, la massima vulnerabilità emotiva, l’espandersi dei tormenti intimi generati dalla
individualizzazione estrema degli stili di vita: non si esprime tanto una gioia dionisiaca traboccante
quanto, invece, la sensazione di isolamento, la problematica delle relazioni con se stessi e gli altri.
Incapace di sopportare se stesso, Narciso cerca lo “sballo” per dimenticarsi di sé, dei legami, del
benessere di gruppo.
La resurrezione della festa
La festa è tornata di attualità, contradicendo gli osservatori che non davano molte chance di
sopravvivenza nelle moderne società laiche. Da tradizionalista qual era, il referenziale di festa si
impone come contestatore o “transpolitico”, animato, da una parte, dal rifiuto nei confronti
dell’ordine stabilito e, da un’altra, dal desiderio di cambiare vita. Successivamente, le feste
religiose, tradizionali e locali, suscitano un interesse nuovo. Si annunciava la morte della festa ma
la festa è risorta. Il ritorno della popolarità della festa si accompagna a una valanga di nuove
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manifestazioni. La fase III è testimone di un’ondata di commemorazioni di tutti i generi, di una


profusione di festività tradizionali di regioni e paesini, di un’esplosione di feste “a tema”, con i loro
imprescindibili spettacoli musicali, animazione, fuochi d’artificio, costumi. Si è passati dal
commemorativo all’ipercommemorativo: le feste venivano organizzate in funzione di principi
tradizionali, religiosi o politici; oggi la loro inflazione galoppante è dovuta sempre di più all’ambito
commerciale e al marketing dell’immagine urbana o regionale. Più si intensifica il processo di
individualizzazione e più si assiste, paradossalmente, all’aumento di megafeste negli spazi
pubblici e privati. Cos’ hanno fatto la comparsa mega discoteche che possono ospitare migliaia di
persone. Se la tecnologia contemporanea vede il trionfo della miniaturizzazione, la festa
ipermoderna vene quello del gigantismo. Sia la logica temporale dominante della festa sia il suo
significato sociale non sono rimasti immutati. La festa, nella sua definizione più comune, ha come
scopo la celebrazione di una divinità, di un essere, di un avvenimento a cui la collettività
attribuisce un’importanza molto speciale. Il passato, fosse esso di tipo religioso o storico,
costituiva il centro di gravità temporale della festa, che era il modo di perpetuare il ricordo e
mantenere vive le tradizioni. In confronto a quel modello, si nota che un certo numero di festività
contemporanee è caratterizzato più dalla volontà delle persone di animare il presente di quanto lo
sia dal desiderio di mantenere la vitalità degli elementi essenziali della cultura. Non è più tanto
questione di re-vivificare la commemorazione, ma, piuttosto, di trasformare il presente in un
momento di gioco e ricreazione. Che cos’è il Natale, se non una montagna di regali per la felicità
dei bambini? Ovunque le feste sono dominate dalla logica degli svaghi, spettacoli e consumi:
quella tradizionale o commemorativa è stat sostituita dalla festa frivola o, meglio, consumeristica,
incentrata sul presente. Sono proprio le festa meno legate al passato, quelle meno ricche di
significato religioso o storico che meglio riescono a scatenare l’esultanza delle masse. Nella
società dell’iperconsumo trionfa la festa senza passato né avvenire, l’iperfesta autosufficiente,
esclusivamente alimentata dalla passione per la distrazione e il consumo. Tutto ciò che i tempi
moderni si sono impegnati a reprimere (ballare da soli, travestimenti) ha potuto tornare in
superficie, quale concretizzazione del diritto al piacere, al non serio, all’esplosione della gioia. Ri-
vitalizzazione di Homo Festivus, andando contro i principi di serietà, lo sballarsi, il travestirsi, il
divertirsi hanno acquistato una nuova legittimità sociale. La festa offre poi l’occasione di godere di
un genere di piacere che è poco favorito dai consumi commerciali e individualistici, vale a dire
l’esperienza della felicità comune, la gioia di riunirsi, di condividere. La neo-festa è qualcosa che
dona una gamma di godimenti introvabili nei negozi e nei supermercati: il piacere di provare
l’allegria collettiva, di vivere uno stato di effervescenza condivisa, di sentirsi vicini agli altri. È il
cosmo della felicità privata che, paradossalmente, spinge al bisogno di assaporare le gioie
provate in comune. La festa tradizionale aveva il compito di rinforzare la coesione delle collettività,
da adesso è all’insegna della felicità degli individui, dell’atmosfera e dell’affettività. Anche le feste
contraddistinte da dimensioni d’identità e comunità (Gay Pride, ecc) illustrano una nuova
preponderanza nella dinamica d’individualizzazione poiché seguono una logica di partecipazione
opzionale. La partecipazione ai raduni festivi dipende da un desiderio, scelta personale o un atto
di adesione. Nella gioia dei sentimenti condivisi si esprime la ricerca di un “Noi” affettivo, di un
assorbimento nella comunità che permetta di mettere in prospettiva la propria via ponendola a
confronto con l’esperienza degli altri. L’individuo si cerca più di quanto non si perda: ecco il
principio della festa resuscitata da un’esigenza di orgoglio.
La festa simpatica
Nell’epoca delle neo-feste prevalgono i sandwich e le bevande rinfrescanti, consumati
camminando per le strade, mentre l’alcol è limitato a qualche gruppo di giovani. Nasce una nuova
specie di festa: quella saggia, edulcorata, alleggerita dalla zavorra degli eccessi. Non ci si diverte
più a pronunciare insulti gratuiti, proposte oscene, lanciarsi uova. La festa ipermoderna non
sovverte radicalmente alcunché, non abolisce alcuna regola o tabù: ormai sono proprio i principi
della vita quotidiana a dare corpo ai godimenti collettivi: sicurezza, salute, igiene, rispetto. È il
momento della festa pulita, light. Nella festa dionisiaca si mettevano tutti i sensi in subbuglio, si
sconvolgeva la ragione cancellando tutti i divieti. Ma oggi? Homo Festivus si è tramutato in
semplice passante, in un curioso acetato di atmosfera fun, di animazioni e spettacoli.
L’irragionevole ha ceduto il passo alla ragione ricreativa. Si ride anche in maniera diversa, si
civilizza. Ridere a crepapelle diventa più raro perché sinonimo di volgarità, non si cerca più di far
ridere, sbeffeggiare, farsi beffe e scherzi. La gente passeggia, ascolta i concerti, le orchestre,
telefona, ride poco, osserva e parla.

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9) SUPERMAN: OSSESSIONE DELLA PERFORMANCE, PIACERE DEI SENSI


Finita la mitologia dei piaceri trasgressivi e sensuali, le nostre società riconoscerebbero un solo
imperativo: l’ottimizzazione di sé, a qualunque età, situazione e con qualunque mezzo. I consumi
sono ora sono chiamati a sviluppare le nostre predisposizioni e gli individui a perfezionare le loro
capacità di saper fare e saper essere. La “società di performance” tende a diventare l’immagine
prevalente dell’ipermodernità: costruirsi, eccellere e accrescere le capacità. L’ideale di superare
se stessi oggi invade la società nel suo insieme, cannibalizza i consumi e gli stili di vita. Ogni
ambito è intrappolato in una logica di concorrenza e di perfezionamento per il perfezionamento. In
questo quadro si impone una nuova immagine metaforica di Superman, il supereroe eccezionale,
sempre n forma. Superman ha destituito Dioniso. Scambiare, lavorare, nutrirsi, avere cura di se
stessi, consumare, fare sport: ovunque le azioni contemporanee sono interpretate come
altrettante manifestazioni della regola della performance che appare anche come la principale
causa del nostro profondo malessere sociale ed esistenziale. Il capitolo che segue è stato scritto
contro questa tendenza che poco a poco sta costruendo una sorta di “pensiero pronto”.

VITA PROFESSIONALE, VITA PRIVATA


L’azienda è il luogo dove si ripercuotono maggiormente gli effetti sia sociali sia umani della cultura
competitiva. Le imprese sono state obbligate ad adottare nuovi schemi di organizzazione del
lavoro: polivalenza, squadre autonome, tempistica, qualità. Non mancano le espressioni per
definire la rottura con il modello Fordista dell’antica modernità. Ma qualunque sia la forma
utilizzata, l‘importante è che la competitività non sia più esclusivamente basata sull’aumento di
produzione e la riduzione dei costi. I mercati si conquistano sempre di più privilegiando la qualità,
il livello dei servizi, la rapidità delle soluzioni alla domanda, il coaching per ottimizzare il
miglioramento delle capacità di lavoro dei lavoratori è un punto fermo. L’epoca che sacralizzava
l’organizzazione scientifica del lavoro o i record dei lavoratori comunisti è ormai alle nostre spalle.
Tutto deve essere ottimizzato. Non è tanto una società di performance a prendere corpo, quanto
una nuova era d’efficienza, che si coniuga con criteri sempre più brillanti e qualitativi. Le antiche
utopie sono morte, ciò che “infiamma” la nostra epoca è uno stile di esistenza dominato dalla
grinta, dalla rinascita, dalla competizione, l’Io ad alto rendimento. Essere il migliore, eccellere,
superare se stessi: ecco la società democratica convertita al culto della performance. Davvero
l’individuo ipermoderno ha abbracciato il culto della vittoria? Davvero accettare rischi e accogliere
sfide si impongono come discipline di soluzione personali? Abbiamo tutte le ragioni per dubitarne.
Lavoro e tempo libero
Uno degli epitaffi più apprezzati del XIX secolo era: “Il lavoro è stato la sua vita”. Oggi l’opinione
che predomina è piuttosto: “Non c’è solo il lavoro nella vita”. Secondo Dumazedier, per i due terzi
delle persone il lavoro ha smesso di essere l’attività più importante. Nella società degli
iperconsumi la gente ripone i suoi interessi e i suoi piaceri prima di tutto nella vita familiare e
sentimentale, nel riposo, nelle vacanze e i viaggi. Nelle società meritocratiche e di mercato, gli
individui continuano in larga misura a definirsi attraverso la loro funziona professionale. Il lavoro
non sta morendo, resta anzi un mediatore per la stima di sé. Fine della “religione del lavoro”
significa tutto, salvo la scomparsa dell’importanza che gli si attribuisce. Nè è la prova la
sensazione di smarrimento o umiliazione provocata dai disoccupati. L’identità e lo status sociale
sono sempre dominati dal lavoro retribuito. È vero he oggi nel Nordamerica, riscuote un certo
consenso quel movimento, detto della “semplicità volontaria” che predica l’autolimitazione dei
desideri e degli acquisti ma abbiamo forti dubbi che esso possa espandersi tanto. Nella società
dell’iperconsumo il primo imperativo non è quello di superare se stessi, ma di poter beneficiare di
redditi cospicui, per vivere a pieno diritto nell’universo delle soddisfazioni commercializzate.
Felici al lavoro?
Malgrado la risonanza della tematica del disagio nell’ambito lavorativo, la schiacciante
maggioranza degli Europei trae dal proprio lavoro un alto libello di soddisfazione. Non è tanto
l’attività stessa del lavoro a procura piacere, quanto, invece, i fattori estrinseci: sicurezza, soldi,
vantaggi sociali, relazioni sociali. L’alto punteggio ottenuto dalla soddisfazione che si trae dal
lavoro non è la fotografia fedele dello stato di felicità dei dipendenti, ma rivela soprattutto la
difficoltà a riconoscere i propri disagi che generano insicurezza professionale. Già che oggetti di
passione, la nuova era dell’efficienza è associata all’inquietudine per il futuro, a maggiori obblighi
e pressioni che pesano sui dipendenti. Più le aziende pongono l’accento u di un modello di
performance personale, meno esso suscita l’adesione ad entusiasmo. Non culto, ma timore della
performance. L’ansia, lo stress, la crisi soggettivi e la sfiducia verso l’azienda progrediscono più di
una smania di vincere che contraddistingue Superman. La società ipermoderna non si
contraddistingue per il trionfo unilaterale della performance, ma per l’impronta dualistica che
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tanno assumendo le norme e i poli di riferimento che organizzano la vita sociale. Disgiunzione tra
performance e qualità di vita, discordanza tra il superamento di se stessi ed edonismo: è proprio
dalle fondamenta della fase III che si ergono le dighe che ostacolano l’egoismo di superman. Oggi
sono molti di più i dipendenti che si lamentano di essere ignorati, non considerati giustamente:
nella scala dei fattori di rischio che mettono in pericolo la salute mentale dell’ambito
professionale, la mancanza di riconoscimento occupa il secondo posto subito dopo il
sovraccarico di lavoro. La società d’iperconsumo ha sensibilmente ampliato l’esigenza di
benessere che, non limitandosi più al comfort materiale domestico, ingloba oggi anche il proprio
rapporto conio prossimo, la valorizzazione e il riconoscimento del lavoro. La percezione della
mancanza di riconoscimento appare in larga misura come il rovescio della medaglia di quella
società che si strutturi proprio intorno alla disperata ricerca della qualità di vita. L’atmosfera sul
posto di lavoro è giudicata fondamentale. Ormai il clima che pervade l’azienda è in cima alla lista
delle preoccupazioni dei dipendenti, iene prima di una retribuzione leggermente superiore o alla
possibilità di evoluzione della carriera. La ricerca di una qualità di vita migliore non è più
circoscritta alla sfera priva, si è estesa anche al lavoro. L’individuo ipermoderno abbraccia solo a
distanza la religione dei record, il suo primo auspicio è quello di sentirsi bene nel suo ambiente
professionale, di lavorare in un ambiente simpatico che rispetti le persone e i meriti di ognuno. Si
acclama la qualità di vita sul posto di lavoro. Se alcuni accomunano il lavoro a un mezzo di
sostentamento obbligatorio e fastidioso, altri, al contrario, ci trovano uno stimolo, un notevole
interesse. La fase III si coniuga con la pluralizzazione dei modi di rapportarsi al lavoro. Oggi, i
vincenti, non si muovo più in nome di un fine estraneo a loro stessi, poiché la loro motivazione
essenziale è di percepire sensazioni forti, di vivere sotto tensione. All’insegna della corsa alla
rapidità, non si disegna tanto un neo-ascetismo produttivistico, quanto, invece, un narcisismo
emotivo che cerca, per le vie più diverse, di "buttarsi in rete”, di identificare il rapporto con il
tempo, di provare sensazioni dell’attimo.
L’euforia sportiva
Ciò che fa dello sport-spettacolo un potente strumento che mette in moto un’eccitazione affettiva
è, da una parte, la sua capacità di creare suspense tra i quasi-pari che si affrontano e dall’altra, di
generare o intensificare i sentimenti di appartenenza al gruppo. Se il pubblico si scatena, è perché
si trova di fronte a “volontà di vittoria”. Le folle non vivano solo perché si risvegliano simili ma
anche perché si possono osservare il massimo rendimento del corpo umano, prestazioni fuori dal
comune. C’è identificazione (logica della similitudine) ma anche dissomiglianza manifesta con gli
atleti, con le loro doti fuori dalla norma che li portano a un livello diverso dal nostro (logica
dell’alterità). Non si può capire l’effervescenza emotiva, che avvolge i grandi incontri sportivi, se
non si tiene conto il rapporto con ciò che non ci assomiglia, la dissomiglianza dei campioni dello
stadio dai comuni mortali.
Società dopante, sport-svago e corpi pigri
In un’epoca di palestre, ginnastica, integratori, body building, si è potuto analizzare n nuovo
narcisismo, ossessionato dai record, dai muscoli. L’iperindividualismo non si contraddistingue più
per l’edonismo, quanto invece, per i desideri di performance fisica, di attivismo stacanovista.
Soffrire distraendosi. Per le donne, le norme tiranniche della magrezza spingono a tenere sempre
sotto controllo il peso e l’alimentazione, a voler rimodellare la figura, fino al punto di farle
sembrare dei forzati dell’aspetto. Questa modificazione è dimostrata sia dal crescente successo
degli sport di scivolamento. Nati come razione alle performance a punteggio o cronometro, gli
sport di scivolamento si basano su motivazioni incentrate sul piacere, l’emozione, le sensazioni
immediate: trionfa una nuova sensibilità che, rifiutando la dimensione tradizionale delle gesta
sportiva, acclama i piaceri sensitivi. Contemporaneamente, lo zapping sugli sport non smettono di
guadagnare terreno al fine di evitare noia, trovare nuovi orizzonte e piaceri. Lo sport è diventato
una perfetta immagine dell’era degli iper-prodotti: non cessa di segmentare il mercato, di
diversificare l’offera, lanciare nuovi prodotti, incrociare vecchie discipline (mountain-bike,
parapendio). Indubbiamente, lo sport-tempo libero non è sempre estraneo al desiderio di superare
i propri limiti: si fa jogging con il cronometro in mano, ci si sfinisce per vincere una partita contro
gli amici. Quello che interessa è mantenersi in forma, igiene di vita, piaceri della scoperta. Il neo-
sportivo non è ossessionato dall’exploit: la cosa a cui mira prima di tutto è il mantenimento del
corpo, sentirsi bene o meglio. Ciò che il nuovo universo sportivo rivela non è altro che
l’espansione sociale dell’immaginario della qualità di vita. È risaputo che nella fase III la pratica
degli sport si è ampiamente diffusa. Non perdiamo però di vista il fatto che gli adepti della pratica
sportiva intensiva a scopo competitivo rimangono una minoranza. Lo sforzo e la disciplina di cui
danno prova i nostri contemporanei sono talmente lontani dal corrispondere alle norme di igiene
di vita che si è dovuto lanciare campagne di sensibilizzazione nei confronti dell’attività fisica per
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prevenire l’obesità e le malattie coronariche. Questa è la situazione: diffondendo i valori del


comfort e i desideri immediati, la società degli iperconsumi ha comportato sia una inattività fisica
di massa sia un processo di destrutturazione o di rilassamento delle discipline del corpo.
L’individuo ipermoderno sogna un corpo perfetto, ma contemporaneamente mangia troppo male,
ed è sempre sedentario. Nella fase III sono ancora dunque all’opera delle logiche paradossali. Gli
spettacoli di sport competitivo trasmessi in tv attirano sempre un numero crescenti di spettatori
ma allo stesso tempo perdono terreno a vantaggio dello sport-tempo ibero. Il pubblico si
infiamma duranti i grandi eventi sportivi, restando comodi seduti davanti alla tv. La società degli
iperconsumi non è solo quella dell’eccesso della performance, è più ancora, quella degli eccessi
di inattività fisica e del tempo libero di puro spettacolo, del cibo spazzatura. Sotto l’ondata della
performance appare il trionfo della pigrizia.

SUPERARE SE STESSI O SENTIRSI BENE?


All’antico modello incentrato sulla passività del consumatore si sostituisce un modello di
comunicazione che incita l’individuo ad agire, a prendersi in carico, a diventare il “demiurgo di se
stesso”. Il doping e il ricorso a prodotti tonificanti o stimolanti vengono presentati come qualcosa
di pressapoco indispensabile per un’epoca di competitività generalizzata. Sempre di più,
l’esigenza di migliorare i nostri potenziale e di eccellere in tutto tende a diventare banale: mentre
la ricerca della salute si coniuga con un corpo perfetto, il mercato registra il successo degli “ali-
cinali”, di bevande tonificanti e altri prodotti arricchiti di vitamine e sali minerali, nell’ottica “dell’Io
ad alto rendimento”. Allo stesso tempo, si moltiplicano le pillole della performance che
permettono il mantenimento della giovinezza, l’eliminazione delle difficoltà sociali e reazionari, la
vittoria sull’infelicità. Phillips dichiarava “Non ci saranno superman senza super-salute”. La salute
quindi non significa mancanza di malattie o di infermità, ma “uno stato di completo benessere
fisico, mentale e sociale”. Salute esuberante che Superman cerca di conquistare con le nuove
“pillole chimiche della felicità”. Se gli atleti diventano consumatori di anabolizzanti e di steroidi, i
consumatori “comuni” voglio superare se stessi, assumendo sostanze chimiche. È così che il
doping nello sport sarebbe ormai solo la punta estrema della società donate quella in cui le
volontà di perfezionamento di sé sono diventato onnipresenti. Alcuni autori considerano che la
padronanza tecnica fine a se stessa non ha saltato deteriorato le antiche logiche di significato ma
tende anche ad allentare l’ancoraggio carnale dell’esistenza e a rovinare il sapore del mondo. Se
già l’immagine televisiva ci allontana dal mondo, sostituendo l’esperienza dei sensi con una tele-
presenza disincarna, ancora più radicalmente il cyber spazio favorisce una comunicazione
astratta ella quale l’altro è solo un’informazione, un’identità virtuale, senza corpo né volto.
Superman è ritratto come volontà pura, mera tensione verso il superamento di sé, come se tutta
l’energia delle soggettività fosse stata assorbita dall’attivismo sfrenato, lo spiegamento della
potenza per lap potenza, la corsa al successo e al denaro. Naufragano i piaceri sensibili. Nello
scatenamento della tecnica, l’operatività ha preso il posto delle voluttà sensoriali, il virtuale quello
del reale, lo sfruttamento a oltranza dei potenziali quello dei piaceri pigri. L’edonismo ha smesso
di essere di attualità, si tratta solo di una “antropologia ormai sorpassata”. Superman appare
come un eroe “de-corporizzato”.
“Maggior ben-essere” e corpo delle sensazioni
Nella fase III, le tecniche definite del “maggior benessere” hanno incontrato un crescente
successo. Saune, bagni turchi, yoga, zen, la società degli iperconsumi convive con una valanga di
tecniche destinate a procurare il piacere di “sentirsi bene nel corpo e nella mente”. “L’età di
essere” si presenta come un nuovo modo di associare il fisico e lo psicologico, di ampliare la
consapevolezza per meglio percepire il proprio corpo. Si è testimoni dell’avvento di una nuova
cultura del corpo e del benessere: il ben-essere sensazione. Il benessere moderno era funzionale,
oggettivistico, meccanicistico: quello della fase III appare come un benessere qualitativo e
riflessivo, focalizzato sul corpo vissuto, l’attenzione rivolta a se stessi. L’analisi non lascia dubbi:
nella società degli iperconsumo l’eroismo del superamento di se stessi è largamente soppiantato
dalle passioni narcisistiche dell’assaporare i piaceri del maggior ben-essere, di sentirsi meglio.
Non è la cancellazione del corpo a trionfare, bensì una nuova dinamica di corporizzazione dei
piacere. Il fatto che una crescente astrazione s’impossessi di alcune pratiche non deve
nascondere lo sviluppo delle nuove offerte e domande di pratiche sensistiche del corpo. Lo
stesso vale per l’igiene e cosmetica. Se l’antica modernità ha celebrato pulizia e igiene come
obblighi morale, l’epoca ipermoderna esalta “il piacere di essere puliti”. Allo stesso modo, le
marche e le pubblicità di cosmetici propongono un discorso sulla voluttà di occuparsi di se stessi
e sul piacere di “riallacciare il rapporto con la propria sensorialità. Il modo di “vedere” il mondo
progredisce solo in sintonia con la sacralità della sensualizzazione dei piaceri consumeristici. Tutti
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gli ambienti del consumo sono toccati da questa dinamica. Con l’abbigliamento sportivo, per
esempio, si accompagna a più funzionalità ed estetica: più gli articoli sportivi cercano di fornire
un’immagine “da campione” più si impone il look-moda. Lo stesso vale per la biancheria intima
femminile. La collocazione funzionale non basta più: la fese III è molto più sinonimo di
cosmetizzazione generalizzata dei segni, degli oggetti e dei corpi di quanto lo sia di de-
concretizzazione/ de-sensualizzazione del mondo. È il periodo del boom della chirurgia estetica,
non si tratta di arrivare alla perfezione estetica, ma di correggere un difetto troppo evidente, di
guadagnare maggiore fiducia in se stessi, essere in sintonia con la propria personalità. Qui dare
rilievo all’ideale della performance non convince, poiché lo scopo perseguito è il ben-essere
interiore. C’è un espansione sociale dei desideri di bellezza, di un’estetizzazione dei
comportamenti e delle aspirazioni della maggior parte della gente. Con la fase III si afferma un
tipo di individualità nella sensibilità estetica, una nuova artizzazione degli stili di vita e di consumo,
contraddistinta da una parte dal distacco nei confronti dello stretto utilitarismo e, da un’altra,
dall’obiettivo di esperienze fatte per il piacere. Ovunque, man mano che l’abbondanza permette a
tutti di scegliere tra gli innumerevoli elementi proposti dall’offerta, i gusti si cingolarizzano e si
diversificano, mentre, allo stesso tempo, il registro estetico modella un consumo carico di
aspettative edonistiche, sensoriali e immaginarie. Attraverso la dematerializzazione del mondo
progredisce ciò che potremmo chiamare un erotismo allargato avido di dilatazioni qualitative e di
sensazioni rinnovate in ambiti della vita sempre più ampi. Tanto più si propaga un certo
“ascetismo” igienista, tanto più si intensifica una dinamica di psicologizzazione ed estetizzazione
dei piaceri. Homo Æsteticus si impadronisce di Homo Consumericus. La società degli
iperconsumi rappresenta lo sviluppo dell’ideologia e delle pratiche per superare se stessi, ma
anche quella che consacra il corpo delle sensazioni, un nuovo immaginario del ben-essere, che
integra dimensioni estetiche e sensitive, psicologiche ed esistenziali. Ne consegue che
l’individualismo contemporaneo si presenta sotto una doppia veste, sensistica e di performance,
narcisistica e prometeica, estetica e bulimica. Il suo modello non è Dioniso, né Superman, è Giano
Bifronte, un Giano ibrido, ipermoderno, che sfrutta a tutto campo le potenzialità aperte da quelle
che sono le due grandi finalità della modernità: efficienza e felicità sulla terra.
Medicalizzazione, prudenza e inquietudine.
L’individuo è impegnato a consultare un numero sempre maggiore di medici, a medicalizzare le
sue abitudini di vita, seguire una dieta sana, consumare cibi bio, ridurre le calorie. Se la società
dell’iperconsumo è dopante, resta comunque strutturalmente ossessionata dalle inquietudini di
prevenzione e manutenzione sanitaria. È un’altra passione a invadere la mente: quella del
mantenersi, la conservazione della salute. Più di Superman, è Igea, la dea della salute, a essere
oggetto di venerazione. Una salute fonte di ossessione, della quale dà prova anche il proliferare
delle medicine naturali. Ormai le terapie alternative si contano a centinaia. Nel momento in cui la
scienza medica e farmaceutica fanno miracoli, molte persone vedono disattese le loro aspettative
di fronte ai rischi iatrogeni e anche a ciò che percepiscono come una disumanizzazione tecnica
delle pratiche sanitarie. Le passioni sfrenate per il superamento di se stessi sono lontane
dall’essere diventate dominanti: La fase III vede affermarsi i timori legati a un potere tecnico-
scientifico demiurgico e, in correlazione, il culto delle cure naturali, la regolazione del sistema
nervoso simpatico, l’armonizzazione delle funzioni organiche. C’è un maggiore scetticismo nei
confronti degli effetti “dello scientifico”. In questo quadro, l’immagine dominante di domani non è
“l’uomo più”, ossessionato dal superamento dei suoi limiti, bensì il principio di precauzione, la
ricerca di terapie non iatrogene, diversificazione dei bisogni. Più le nostre vite dipendono dagli
exploit tecno-scientifici e più il nostro pseudo Superman ripone la sua fiducia in Panacea, la dea
greca delle piante medicinali. Con la fase III si è passati dallo stadio della performance “semplice”
a quello della performance riflessiva, formulata come un problema. Il sovraconsumo di
psicofarmaci non rivela solo la fragilità dell’individuo ipermoderno, ma anche il suo approccio
consumeristico: avere sollievo senza aspettare il tormento del mal-essere. Nella fase III
l’iperconsumatore ha sempre meno mezzi simbolici al fine di dare un significato alle difficoltà che
incontra nella vita: in un’epoca in cui la sofferenza non ha più la connotazione di prova da
superare, si generalizza l’esigenza di cancellare il più rapidamente possibile, chimicamente, i
problemi che ci affliggono e che appaiono come una semplice disfunzione, un’anomalia tanto più
insopportabile alla luce del benessere che si impone come ideali di vita predominante. Il ricorso
agli psicofarmaci può essere interpretato come la pressione dell’ideale del comfort che interessa
anche il campo psichico. La “medicalizzazione dell’esistenziale” non è tanto la risposta alla
dittatura della performance, quanto, invece, l’effetto della potenza dell’immaginario del benessere
e della qualità di vita che ormai inglobano il campo psichico.

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I consumi palliativi
Che cosa spinge in modo perpetuo l’iperconsumatore? Lo sfaldamento dei legami sociali,
l’affievolirsi dei sentimenti di appartenenza ad una comunità, allentamento dei legami familiari.
Nella fase III tutti questi fattori hanno accentuato la sensazione di isolamento degli esseri umani,
l’insicurezza interiore, le esperienze di insuccesso personale, le crisi soggettive e intersoggettive.
In tutta una parola: il mal-essere. Più i rapporti sociale e interpersonali diventano fragili o
frustranti, più aumenta la mala-vita e di conseguenza, il consumismo divampa, come rifugio,
evasione, piccola fuga. Sempre in quest’ottica, i consumi nella fase III, destinati a risollevare il
morale, a volersi bene, si contraddistinguono per il loro valore emotivo. Homo Psychologicus è
diventato Homo consumericus. Non momento in cui i rapporti sociali si affievoliscono e le
capacità di influire sulle tendenze negative sembrano poco credibili, i consumi rappresentano una
sfera scelta e dominata dai soggetti, un universo proprio, in cui si cercano incessantemente
elementi di felicità. Iperconsumo: non tecnica al servizio del superamento di se stessi, bensì
ricerca di un tempo per sé, in cui ci si prende cura di sé.

SEX MACHINE?
Il sesso è spesso presentato come un altro continente emblematico della supremazia di
Superman. Le relazioni sessuali tendono a trasformarsi in “beni di consumo”, che si possono
scegliere a piacimento, senza vero impegno, un pò come in un self service. C’è un allineamento di
Homo Sexualis con Homo Consomator. Se, nei periodi precedenti, predominava la regola del
pudore eccessivo, oggi avremmo una “libertà imposta”, un’inedita persecuzione, che oi altro non
è se non “l’orgasmo obbligatorio”. È in questo modo che il diritto al piacere, incensato dalla
gioventù ribelle, è diventato un obbligo. L’imperativo della performance non è più limitato al lavoro
o allo sport, si è appropriato anche del pianeta sesso. L’essere umano vuole eccellere in tutto,
sesso compreso (Es. Operazioni o tecniche per stimolare, ringiovanire, aumentare i caratteri
sessuali e le zone del corpo, alto uso di viagra). Mentre si diffondono la “dis-erotizzazione delle
persone” e l’impersonalità del rapporto con l’altro, la fase III si trasforma gli individui in “carenti di
amore” in soggetti calcolatori. Le mitologie del cuore non si sono inaridite. La promozione sociale
di Homo Erotics non ha in alcun modo fatto naufragare le aspettative e il discorso amoroso. La
fase III è contraddistinta dall’aumento dei nuclei composti da una sola persona, eppure l’ideale
della coppia, il desiderio di vivere un grande amore non sono svaniti. È solamente scomparso il
modello fusionale dell’amore, non l’ideale amoroso. Non esiste la morte dell’affettività, non
assistiamo tanto a un processo di de-sentimentalizzazione, ma piuttosto, a una crescente
affettivizzazione dei rapporti tra gli esseri umani. La fase III è contraddistinta anche dalla
psicologizzazione di massa delle sessualità e della vita di coppia più di quanto lo sia dalla de-
simbolizzazione e dal collasso affettivo. Oggi la soddisfazione sessuale è un obbligo, c’è un
nuovo ideale di virilità che tiene conto dell’importanza del desiderio femminile di essere
soddisfatto. Non c’è praticamente da dubitare che l’infelicità sessuale degli individui sia più
difficile da accettare nel momento in cui gli appelli al piacere inondando la vita quotidiana. Più
trionfa la compiutezza erotica, più essa genera frustrazione in chi ne è escluso. Nel passato, il
sesso era una corvée, i matrimoni erano un’unione senza attrazione, la donna non raggiungeva il
piacere per la paura di dover affrontare una maternità. Il cambiamento è notevole: ora le donne
sono diventate più attive e edoniste nel rapporto amoroso. Non è l’ossessione dei record che
contraddistingue il momento ipermoderno, ma piuttosto l’impronta edonistica, la diversificazione
dei comportamenti sessuali della maggior parte della ente. L’individuo ipermoderno dichiara un
alto grado di felicità per la vita sessuale. La soddisfazione che si trae dalla propria vita sessuale
non è solo in funzione del numero degli orgasmi: è vincolata al desiderio dell’altro, ai legami di
complicità, al fascino della seduzione, all’intensità dei sentimenti provati per il partner. Tutti
fenomeno che, in generale, il tempo deteriora. È così che la soddisfazione erotica cala con il
perdurare del rapporto di coppia, con la banalità dei giorni, con routin-inizzazione delle relazioni e
con le ferite che ognuno subisce.

10) NEMESI: OSTENTAZIONE DELLA FELICITÀ, REGRESSO DELL’INVIDIA


L’epoca che comprime lo spazio-tempo è la stessa che tende a cancellare gli antichi confini fra
spazio privato e spazio pubblico. Finiti i vecchi poderi della soggettività, ormai la vita
interpersonale è quella che si dispiega in pieno giorno, tracimando in grande ondate sulla scena
mediatico-politica. Eravamo consumatori oggetti, viaggi, informazioni, ora siamo anche
consumatori di intimità. La fase I ha visto nascere le star del cinema; la fase III è quella che
promuove celebrità qualunque, che non devono fare altro che essere ciò che sono nella banalità
della giornata, e la scenografia dell’autenticità dell’Io. Alle super produzioni di Hollywood ora gli
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iperconsumatori vogliono provare emozioni davanti allo spettacolo di essere vicini più di quanto
vogliamo ammirare delle figure ideali. Il mostrare tutto, vedere tutto ha spinto a definire la società
degli iperconsumi come società trasparente. In questo capitolo si analizzerà una dimensione della
vita soggettiva, sfuggendo in larga misura al processo di pubblicizzazione dell’Io, sostiene una
logica dell’inevitabile: l’invidia. L’invidia è il sentimento di dispiacere che a volte si prova vedendo
le qualità o la felicità altrui; è la gioia maligna davanti all’infelicità degli altri, l’auspicio che siano
privati dei loro vantaggi. L’invidia è ciò che si tiene segreto. Quando Penia, Dioniso o Narciso
sono stati chiamati in causa come chiave di lettura, Nemesi, la potenza divina che per i greci
rappresentava l’invidia, restava nascosta. Renard notava che “non basta essere felici, è
necessario che gli altri non lo siano”.

IL MALOCCHIO
È nelle società primitive e nelle comunità rurali tradizionali che l’invidia trova la sua forma più
coerente, più accentuata, più socialmente strutturata. In queste culture le infelicità di cui soffrono
gli uomini non sono mai intese come il frutto del caso o di un puro determinismo naturale: sono
viste scaturire dalla cattiveria e dalle gelosie degli altri. Per spiegare la malattia, la morte, un
incidente si parla di “malocchio”, la magia malefica ispirata da sentimenti sinistri e dalla gioia di
generare pregiudizi; tutto ciò che di cattivo avviene è imputabile a una predisposizione d’animo
colmo di odio di qualcuno. Ne consegue che quelle tradizionali possano essere considerate
società davvero ossessionate dall’invidia. Nelle comunità rurali tradizionali c’è la paura dell’invidia.
Il vicino è considerato nemico più che amico. Gli avvenimenti felici fanno temere la gelosia altrui,
quindi non bisogna sbandierare la propria fortuna con gioia sentendosi migliore degli altri, per
evitare situazioni di distruzione o manifestazione di tendenze invidiose. Significativamente, il plus
di alcuni indica un manus per gli altri. Quando esista una sorta di standard della somma dei beni,
nessuno guarda di buon occhio ciò che un altro ottiene e tutti devono temere il risentimento altrui.
I sentimenti di fratellanza serene non dominano, il primo posto è occupato da quelli maligni e
sospetti poiché il più piccolo vantaggio personale è destinato a suscitare l’animosità dei parenti e
dei vicini.

QUANDO LA FELICITÀ SI METTE IN MOSTRA


Nel mondo “passato” esistevano imperativi sociali il cui compito era di arginare le bramosie altrui:
adesso non è più così. Le società contemporanee hanno fatto saltare tutti gli argini di protezione,
come se i costumi iperindividualistici fossero riusciti a liberarci dalla paura immemorabile dei
sentimenti invidiosi. Anche la pubblicità sfrutta l’invidia, ci sono spot pubblicarti che fanno
addirittura vanto di prodotti che susciteranno invidia. Quello che faceva paura è diventato
argomentazione di vendita, sentimento trattato con disinvoltura e ironia. La tv, le riviste e la
stampa, mostrano ogni giorno lo spettacolo di coloro i quali incarnano la pienezza della vita. A
una logica tradizionale di dissimulazione fa seguito quella di ostentazione di immagini di felicità
fuori dal comune. I greci pensavano che agli dei fossero sgradite le manifestazioni di trionfo
mentre i media moderni, danno un rilievo ai nuovi dei olimpici, che sembrano vivere in una
dimensione superiore. Ormai non si consumano più solo cose, si sovra consuma lo spettacolo
iperbolico della felicità dei personaggi celebro-si.
L’invidia neutralizzata
La pubblicità non è in alcun modo impegnata a stimolare la bramosia: esalta la positività delle
novità, dei desideri e dei godimenti. Tutto ciò che è aggressivo è eliminato, a beneficio della
freschezza del vivere. La pubblicità non è la leva dei sentimenti maligni, ma uno strumento di
legittimazione e di esacerbazione dei godimenti individualistici; non ci focalizza sugli altri ma su
noi stessi. La pubblicità non comporta rabbia invidiosa, ma smania consumeristica per sé,
accelera la spinta del desiderio e ne decolpevolizza il consumo. Non dispiacere per ciò che gli altri
posseggono ma euforia per le novità e impazienza di acquistare ciò che ci manca. La pubblicità
non è tanto un moltiplicatore quanto, un riduttore di invidia. Non siamo invidiosi verso le star anzi,
le amiamo, siamo felici delle loro gioie e soffriamo delle loro tristezze. Li amiamo perché li
sentiamo vicini ma proprio perché sono lontani da noi, non proviamo loro gelosia, né rancore.
Nella fase III si moltiplicano le trasmissioni televisive incentrate sulle persone coni i cui sogni più
belli sono esauditi sotto gli occhi del pubblico. Nella società degli iperconsumi la felicità altrui è
diventata un formidabile oggetto di consumo di massa scevro dal torneo dell’invidia.
L’iperconsumatore trova piacere nell’essere testimone della felicità degli altri. Come hanno notato
Smith e Nietzsche, nulla è più insopportabile dell’essere consapevoli che si è soli a soffrire. Essere
spettatori delle sfortune dei vip + una prova che l’infelicità è una cosa universale. Non c’è una

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gioia maligna a vedere le sfortune degli altri ma un appagamento nel vedere che non siamo i soli a
soffrire. Apprezziamo meglio la condizione che viviamo se sentiamo che sfuggiamo al peggio.
La felicità in parole
Abbiamo meno paura di scatenare sentimenti di bramosia e gelosia di quanto teniamo di lasciare
immaginare agli altri che non siamo felici. Riconosciamo di essere fortunati e privilegiati perché è
di cattivo gusto ostentate un lusso vistoso ma non la felicità. È diventato normale esprimere la
propria gioia in termini superlativi, dichiararsi fortunati senza dovere immediatamente toccare
ferro per scongiurare la cattiva sorte. Non temiamo più di provocare reazioni di invidia da parte
degli altri.
Paura dell’invidia e modernità
Man mano che si imponeva l’idea che “nessuna potenza misteriosa e imprevedibile interferisce
con l’andamento del mondo” e che la natura non ubbidisce a volontà umane ma leggi
impersonali, la stregoneria e la magia nera hanno smesso di essere dei sistemi che regolano le
credenze e i comportamenti umani. Le rivalità invidiose che erano tradizionalmente considerate un
pericolo sono adesso viste come fattori di progresso che consentono di sfuggire alla povertà e
alla violenza. Ne consegue che le culture moderne si sono meno impegnate a scongiurare l’invidia
che a favorire ciò che è probabile che l’acuisca. È nata una nuova civiltà in cui è diventato
pensabile ed encomiabile vivere come se l’invidia non esistesse o non comportasse alcun
pericolo distruttivo. Diffondendo una cultura che incoraggi a vivere per sé e ad amare se stessi, le
società consumistiche hanno sostituito l’ossessione dell’invidia con l’esibizione della felicità, la
paura delle maldicenze con l’indifferenza verso il prossimo. Da lì, il perseguimento della felicità si
è imposto come una norma legittima. Ormai ci si prende gioco o si ride delle brame altrui: l’età
trionfale dei consumi può essere considerata la tomba di questo terrore immemorabile.

FIDUCIA, FELICITÀ E INVIDIA


I modi di immaginare la felicità e l’infelicità altrui hanno subito cambiamenti notevoli. Visto che la
paura dell’invidia spingeva le persone a nascondere i loro vantaggi, nelle società tradizionali la
tendenza era di sopravvalutare i beni degli altri e dunque la gente era meno persuasa che essi
godessero di una situazione migliore della loro. Mentre svanisce la paura dell’invidia aumentano le
dichiarazioni di massa di felicità personale. Con l’individualizzazione estrema dei costumi prevale
la sensazione del “io sono abbastanza felice, gli altri non lo so”. Come spiegare il fatto che le
persone si considerino, in generale, più felici degli altri? La risposta delle persone sia una
ragionevole deduzione scaturita dalla loro consapevolezza delle brutture del mondo più
dell’espressione di un vissuto intimo. Non bisogna tanto riconoscervi un determinato ideologico
meccanicistico, quanto, invece, una manifestazione di individualismo informato e riflessivo. Se la
gente si dichiara felice dipende anche dal fatto che, essendo sopravvalutati nei confronti di
situazioni esistenziali meno soddisfacenti, i momenti di felicità hanno registrato un’ascesa
vertiginosa. Anche se adesso ho il morale a terra, non è forse vero che in altri giorni, o momenti, la
vita mi ha sorriso di più? Sono proprio questi momenti migliori a essere conservati nella mente e a
spingere gli europei in generale a dichiararsi, malgrado tutto, felici. Questa espressione non è vera
poiché è di tipo riflessivo quando invece, in questo ambito, l’unica cosa pertinente è l’espressione
del vissuto più soggettivo. Le persone si dichiarano felici perché ammettere il contrario “non fa
bene al morale”. Nella società degli iperconsumi gli individui non si proteggono più contro il
malocchio gettato su di loro dagli altri, ma contro i loro stessi giudizi negativi che, troppo severi,
rimandano un’immagine desolante di se stessi. Fondamentalmente è un atteggiamento, che mira
a ostacolare lo scoraggiamento e a mantenere la fiducia in se stessi.
Fiducia, sospetto e invidia
Una bassa percentuale di persone pensa che si possa avere fiducia nella maggior parte della
gente. E nessuno ignora quanto varie minoranze come gli immigrati, drogati, siano oggetti di una
diffidenza particolare. Questa crisi di fiducia orizzontale si accompagna a quella di fiducia
verticale. Un numero crescente di persone ritiene che i politici non mantengano la parola e siano
solo interessati a essere rieletti. Siamo in una “società di diffidenza generalizzata”. Anche se è
vero che le società ipermoderne registrano un indebolimento costante della fiducia verticale, si
assiste comunque a uno sviluppo di attività sociali (vita associativa e volontariato) che
presuppongono alti livelli di fiducia. Alla paura dell’invidia di chi ci è vicino, che pesava sulle
antiche culture, è subentrato un aumento di sentimenti di fiducia reciproca. Tuttavia, se aumenta
la fiducia nei confronti di chi ci è vicino, si erode quelle verso noi stessi: meno il vicino è
identificato come il nemico e più le persone hanno dubbi su se stesse. In alcune antiche società si
cercava di sminuirsi per non provocare l’immagine negativa di noi stessi. Anche se sempre meno
correlati all’invidia, i timori non sono, per questo, meno ossessivi.
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LA METAMORFOSI DELL’INVIDIA
Con la democrazia, ciascuno, conquistando una posizione paritetica agli altri, può confrontarsi
con loro e tende a trovare insopportabile il benché minimo privilegio di cui gode il vicino. Quando
l’ineguaglianza è la legge comune di una società, le diseguaglianze più grandi non colpiscono più
gli occhi; quando tutto è pressapoco sullo stesso libello, anche le più piccole feriscono.
Decretando l’uguaglianza e permettendo alla maggioranza delle persone di aspirare un maggior
numero di godimenti materiali, la società democratica non fa altro che diffondere i confronti
invidiosi e intensificare il risentimento di tutti. L’interpretazione secondo cui la modernità
democratica favorisce l’invidia a un libello generale di frustrazioni perdura a oggi con il supporto
dello schema del desiderio mimetico: 1) Non si desiderano le cose di per se stesse ma perché un
altro le desidera. 2) facendo convergere i desideri sullo stesso oggetto, l’altro diventa sia modello
sia rivale e ostacolo. 3) Meno il divario fra gli uomini è profondo, più essi limitano e si scatenano le
gelosie. L’uguaglianza e il benessere, ben lungi da preparare una pace armoniosa, corroborano
l’amplificazione di desideri rivali e di sentimenti di amarezza. Non sono più molto numerosi coloro
i quali, di classe media, soffocano di rabbia alla vista dell’auto, della casa, dell’arredamento. Nella
fase III gli oggetti di consumo hanno perso molto del loro tradizionale potere di sollecitare reazioni
di ostilità. I desideri consumistici proliferano, ma diminuisce la gioia maligna di vedere l’altro
privato dei suoi vantaggi materiali. La verità è che la società degli iperconsumi non affretta
“l’inferno delle cose” piuttosto, lo allontana da noi. Le persone considerano con meno acredine le
differenze materiali che esistono fra loro e il prossimo. Quando il consumo emotivo ha la meglio
su quello di status, gli individui sono più auto-centrici, più motivati dalla ricerca di esperienze
esistenziali positive di quanto lo siano dal desiderio negativo di vedere gli altri spogliati dei loro
vantaggi materiali. Oggi è mio probabile che i beni materiali che l’altro possiede ci inquietino e ci
avvelenino l’esistenza: la cosa importante è di “essere più”, uscire di più, vivere esperienze
rinnovate ed euforizzanti. Il regime dell’iperconsumo è riuscito ad attenuare le frustrazioni se non
proprio di tutti, almeno di un numero crescente di persone. Visto che non mostra più un’immagine
degradante, di se stessi, l’indumento a buon mercato non è più vissuto in modo umiliante. Non
tutti hanno accesso alle marche prestigiose ma indossare abiti meno costosi non è più un segno
di indegnità sociale e neppure di esclusione dalla moda. Fatta eccezione per gli adolescenti, gli
individui non provano più alcun piacere a suscitare l’invidia degli altri ostentando le ultime
tendenze. È cosi che diventa frequenta sentirsi allergici alle scelte consumatrici degli altri, molto
semplicemente non condividiamo i loro gusti estetici, e la loro maniera di vivere è così lontana da
ciò a cui attribuiamo valore che non è in grado di risvegliare la nostra invidia. Diversificando i
gusti, l’estetica e gli stili di vita, legittimando sistemi di valori eterogenei, la società degli
iperconsumi ha grandemente contributo a ridurre il dispiacere che si prova davanti al modo con il
quale gli altri, più o meno vicini, gestiscono il loro bilancio e il loro ambiente quotidiano.
Lusso e confronto provocatorio
Le spese di lusso rivelano la stessa tendenza a un affievolimento del ruolo dell’invidia. Veblen
sottolinea che il motore dei consumi dispendiosi non è altro che una corsa alla stima, al confronto
provocatorio. Il motivo di questi acquisti sono: avere la meglio sugli altri, attirare la stima dei
propri simili. Tuttavia, stanno nascendo altri tipi di acquisti costosi che, nutriti da motivazioni
personali, mirano a esperienze più raffinate, sensitive ed estetiche. Il fine è allora quello di godere
intimamente della differenza con le masse, di assaporare piaceri rari e per se stessi più che per
suscitare la bramosia altrui. Vivere il lusso per sé, invece di farne ostentazione: la fase III si
contraddistingue per la regressione dei confronti abbaglianti a vantaggio di una neo-
aristocratizzazione interiore, di una esperienza emotiva di cose belle. All’indignazione morale
suscitata dal fasto dei privilegiati subentra l’inquietudine, nutrita dall’inquinamento provocato dalle
industrie e dalla devastazione delle risorse naturali del Pianeta; agli strali tradizionali lanciati
contro il superfluo e la vanità succedono le proposte contro il degrado del gusto, dei paesaggi
naturali della qualità di vita. Vivere meglio, prendersi il proprio tempo. È come se il lusso avesse
perso la sua capacità di provocare risentimento, l’ostilità aperta, il desiderio di spogliare i ricchi
dei loro beni. Il lusso faceva démodé, ora è di moda. Nelle società degli iperconsumi non è più
tanto questione di combattere dei privilegi sottraendo beni ai ricchi, quanto di accedervi con lo
scopo di godimenti emotivi e privati.
Invidia esistenziale e invidia generale
Il successo degli uni favorisce il rancore degli altri ovunque fioriscono gelosie e gioie maligne.
Tuttavia, non sono più tanto le differenze di ricchezza a provocare i sentimenti malevoli quanto
alcune categorie di beni, la cui caratteristica è proprio quella di non poter essere comprati.
Prestigio, celebrità, talento, vittoria, bellezza: ecco che cosa suscita l’invidia. Quando regna il
consumo-mondo, sono i beni non acquisibili che alimentano le passioni maligne. Certo, le felicità
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e le soddisfazioni altrui sono sempre state i detonatori delle reazioni invidiose: semplicemente,
questa verità si impone oggi con un’evidenza più cristallina. Eccoci chiaramente in un’epoca di
invidia postmaterialista o esistenziale. La mancanza di fiducia in se stessi, la sensazione di
impotenza, gli insuccessi, l’insoddisfazione sono altrettante esperienze che aprono la strada ai
risentimenti. Non mancano le persone che alle gioie delle star e dei ricchi, provano rabbia e
invidia. Permane quindi l’invidia del singolo così come l’invidia generale. Il panorama dell’invidia
mostra sempre picchi altalenanti.
Il regresso dell’invidia
L’universo delle merci è stigmatizzato, ma tutti auspicano di farne parte. Proprio come si osserva
un acquietarsi della conflittualità sociale e politica, così, nella fase III, assistiamo a un affievolirsi
del rancore nei riguardi dei più avvantaggiati. Se le prime democrazie moderne hanno generato
“l’invidia, la gelosia e l’odio impotente”, le nostre sono testimoni di un calo di sentimenti di
rancore e di ostilità nei confronti dei ricchi. L’iperconsumatore soffre più a causa di se stesso che
a casa della prosperità insolente degli altri, una prosperità che suscita più curiosità o indifferenza
che rabbia devastatrice. Questo non impedisce la reviviscenza delle proteste e delle critiche al
neo-liberalismo: semplicemente si nutrono più di indignazione-morale che di indignazione-invidia.
Le persone tendono a “volerne a se stessi picche al sistema”, poiché ognuno è ritenuto
responsabile della sua riuscita o del suo fallimento. Man mano che le regole collettive si
cancellano, soppiantate dalle norme dell’individuo che si governa autonomamente, l’invidia
distruttrice cede il passo a una cultura che ferisce la stima in se stessi dei perdenti. Alla fine della
guerra di tutti contro tutti segue la sminuente rimessa in causa di se stessi da parte di se stessi.
Nell’epoca dell’iperindividualismo ciò che più avvelena l’esistenza non è il bene degli altri ma la
nostra sventura. Le infinite sollecitazioni o le offerte di felicità non fanno certo scomparire l’invidia,
ma riducono la sua potenza invasiva, visto che ognuno si preoccupa più della sua vita che di
quella degli altri. Ormai nulla è più importante della del vivere “più”, sentirci meglio, fare nuovo
esperienze. Diventa difficile sostenere che “invidiare ed essere invidiati sono le nostre attività
principali su questa terrea”. Questo giudizio però, valevole per le società olistiche, non è più
valido nell’epoca dell’iperindividualistica, visto che la preoccupazione per la felicità privata ha la
meglio sul modo di guardare alla felicità degli altri. La verità è che noi sappiamo valutare sempre
meglio la nostra felicità senza paragonarla a quella altrui. Le società tradizionali hanno favorito lo
sviluppo dell’individuo e le democrazie moderne nascenti hanno continuato l’opera. Ne consegue
che sia le civiltà di vergogna sia le civiltà di colpa possono essere considerate civiltà di invidia. A
questo livello, la società degli iperconsumi segna una rottura. Non solo la paura dell’invidia non
regola più le rappresentazioni sociali e individuali, ma i desideri di vedere il prossimo privato dei
suoi vantaggi hanno una rilevanza infinitesimale nell’economia psichica delle persone. Forse per
la prima volta, la società del narcisismo è riuscita ad attenuare la forza dell’invidia provata da
Nemesi. La gioia maligna si attenua, l’indifferenza nei confronti dell’altro cresce e ben diversi
crucci affliggono l’iper-individuo che soffre di solitudine, d’ansia, di dubbi su se stesso. Un male
ne scaccia un altro. Nella felicità non c’è progresso.

11) HOMO FELIX: GRANDEZZA E MISERIA DI UN’UTOPIA


Di testo in testo si enuncia sempre lo stesso postulato: l’uomo è nato per essere libero e felice.
Prima fra le leggi naturali, la ricerca della felicità appare come l’attività fondamentale, la più
pressante che ci sia. Davanti alla negligenza con la quale gli uomini, trattano questa “attività”, i
moralisti reputano che sia loro dovere impiegare tutti i mezzi per illuminare i loro simili sulle
condizioni fisiche, morali e affettive che permettono di conquistare una vita felice. Ecco la morale
elevata a scienza della felicità, la sola che sia veramente utile agli uomini. Morale di felicità ma
anche sogni di beatitudine: si moltiplicano i discorsi utopistici che immaginano una società
diversa, riconciliata con la felicità; è messa in scena da canzoni, opere, anche dallo scenario della
vita: abitazioni, interni, arredi. Si ripropongono le più grandi speranze nel progresso della scienza,
il cui scopo non è più visto come strettamente speculativo, ma anche utilitaristico. Prende corpo
una visione ottimistica del futuro, fondata sul progresso che somma conoscenze e tecniche e che
sarà sistematizzata nelle grandi filosofiche della storia. Le conoscenze elimineranno i pregiudizi gli
uomini diventeranno migliori man mano che saranno illuminati, le tecniche miglioreranno
l’esistenza materiale e allungheremo le aspettative della durata di vita. Homo Felix è diventato
l’orizzonte del genere umano. La felicità non è più pensata come un futuro meraviglioso ma come
un presente già radioso, godimento immediato sempre rinnovato. Non più la promessa di
salvezza terrena a venire, ma la felicità subito. Alle promesse progressiste hanno fatto seguito le
visioni pessimistiche mentre la tecno scienza è stata equiparata a una macchina infernale che
produce più danni che benefici. Ai nostri giorni, le innovazioni inducono più all’inquietudine o allo
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scetticismo che all’entusiasmo, ovunque si esprimono dubbi sul progresso così come si avanzano
richieste di protezione e limiti: è svanita la fede in un futuro necessariamente migliore e più felice.
Mentre la fiducia nel futuro si affievolisce, aumentano i timori per l’ecosistema, si moltiplicano gli
appelli per un tipo di sviluppo economico alternativo e nascono nuovi movimenti religiosi, nuove
aspirazioni spirituali: tutti fenomeni che sembrano essere il segno di una crisi della cultura
materialistica della felicità. Le meraviglie tecnologiche si moltiplicano, ma il pianeta è in pericolo. Il
mercato offre sempre più numerosi mezzi di comunicazione e distrazione. Produciamo e
consumiamo sempre di più ma non per questo siamo felici.

FELICITÀ E SPERANZA
È in nome della felicità che si dispiega la società degli iperconsumi. La produzione di beni, servizi,
media: tutto è pensato e strutturato principalmente mirando alla nostra più grande felicità. In
questo contesto proliferano le guide e i metodi per vivere meglio: la tv e la stampa distillano
consigli per vivere meglio. Siamo passati dal mondo chiuso all’universo infinito delle chiavi della
felicità: è il tempo del coaching generalizzato e della felicità-istruzioni-per-l’uso per tutti. Bruckner
propone l’idea “a forza di avere fatto della felicità un ideale supremo, questo è diventato un
sistema di intimidazione. È cosche il diritto alla felicità si è trasformata in imperativo d’euforia che
genere vergogna o disagio in chi se ne sente escluso. Nel momento in cui regna il “dispotismo
della felicità”, le persone non solo sono più infelici, ma si sentono in colpa perché non si sentono
bene. Questa verità indica la nuova pressione che l’ideale di realizzazione personale esercita sui
modi di percepire e giudicare la nostra vita. Il punto è incontestabile: erigendo la felicità a norma
onnipresente, la nostra epoca rende ancora più difficile la prova di chi fallisce nel raggiungerla.
Nel momento in cui l’uomo è posto come valore primo, la felicità si impone immediatamente
come ideale supremo: questo processo non ha fatto altro che amplificarsi. L’ossessione
contemporanea della realizzazione completa rappresenta il compimento perfetto e irresistibile del
programma della modernità individualista e commerciale. Nulla fermerà la promozione a tutto
campo della realizzazione soggettiva. Sempre più mercato, sempre più stimoli a vivere meglio.
Non c’è stata alcuna inversione di logica, quello che si verifica è un effetto ultimo, coerente e
pletorico della civiltà individualista-commerciale che amplifica continuamente la sua gamma di
offerte e promesse allo scopo di una vita migliore. L’insuccesso, la solitudine, le ferite del cuore, la
noia, la povertà, la malattia, la morte: tutte queste esperienze portano in se stesse l’infelicità,
indipendentemente da qualunque imposizione ideologica e del dovere di felicità in particolare. Dal
momento in cui l’individuo è libero dai vincoli comunitari, la sua ricerca irrefrenabile di felicità non
può che rendere la sua esistenza ancora più Problematica e insoddisfacente: tale è il destino
dell’individuo socialmente indipendente, il quale, senza sostegno della collettività o della religione,
affronta le prove della vita solo e disarmato.
Saggezza dell’illusione
Chi afferma che “l’uomo felice è quello che non ha più nulla in cui sperare coltiva l’arte del
paradosso”. Speriamo troppo? Per i comuni morali una zero-speranza è una disperazione. Si è in
errore quando equiparano le promesse della società degli iperconsumi a un sistema di
intimidazione e colpevolizzazione: esse sono anzitutto un complesso di miti, sogni, significati
immaginari che, dando impulso a scopi e fiducia nell’avvenire, favoriscono la ri-ossigenazione di
un presente spesso senza fiato. Se, come vedremo, c’è un’illusione della saggezza, c’è anche una
saggezza dell’illusione. L’infelicità non è una fatalità, che esistono delle strade, se non per essere
felici, almeno perché le cose non vadano così male. Risvegliando nuovi centri di interesse e nuove
prospettive, è meno dogma, o macchina da obblighi, di quanto invece sia motorino d’avviamento
dell’esistenza oltre che strumento per riappropriarsene.

CONSUMO DISTRUTTORE E CONSUMO RESPONSABILE


Volto ai godimenti e agli interessi immediati, indifferente alle conseguenze a lungo termine,
l’inseguimento frenetico della produzione e delle soddisfazioni materiali è denunciato, ogni giorno
di più, come un’impresa folle che provoca inquinamento dell’ambiente, erosione della biodiversità,
riscaldamento del clima. Allo scopo di limitare le emissioni di CO2, è imperativo non aspettare a
ridurre il colostro consumo di petrolio, gas e carbone. Per un motivo fondamentale è ora
necessario il controllo o la limitazione del consumerismo: i consumatori sono diventati i primi
responsabili dell’effetto serra, i primi inquinatori del Pianeta. Nella fase II il consumatore era visto
come una vittima; oggi è sul banco degli imputati e indicato come un soggetto da informare ed
educare poiché investito di una missione di assoluta e primaria importanza: salvare il Pianeta
cambiando le consuetudini quotidiane e consumando sostenibile. I consumatori devono
risparmiare energia, evitare sprechi, prendendo coscienza degli effetti negativi degli stili di vita
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sull’ambiente: la fase III è quella in cui si afferma l’esigenza di un consumatore responsabile e


dotato di senso civico.
Una società di iperconsumi sostenibili?
Il funerale della società degli iperconsumi, anche se aumenta il consumo di energia e
l’inquinamento ogni anno, non è manifestamente previsto per domani: la nostra epoca è piuttosto
testimone di una sua espansione a livello planetario. Il passaggio a un’economia più sobria non
significa la fine della società degli iperconsumi. Si può ipotizzare un futuro diverso con un calo dei
consumi e dei combustibili, ma a lungo termine. Si ipotizzerà grazie anche allo sviluppo
tecnologico e al suo progresso. Un domani saranno i paesi del sud del mondo che entreranno nel
consumo-mondo. La ricerca della felicità grazie ai beni e ai servizi commercializzati è solo all’inizio
della sua avventura storica. Salute, svaghi e giochi, trasporti, cultura: la totalità dei bisogni sarà
assorbita dalla logica delle merci e insedierà la fase III su tutto il Pianeta. Bisogna arrendersi
all’evidenza: la società degli iperconsumi si impone come il nostro unico orizzonte, nulla fermerà
l’espansione dei consumi a pagamento in tutte le nostre attività. Anche se esistono politiche
economiche o sociali diverse, al momento non c’è una soluzione alternativa alla società
d’iperconsumo.
Iperconsumi e alter-consumi
Alcuni sondaggi rivelano che il 15-20% dei consumatori può essere considerato un alter-
consumatore che opta per i prodotti etici, rifiuta l’identificazione con le marche, acquista alimenti
“bio”, si interroga sull’impatto ambientale dei prodotti: tutti comportamenti che rivelano la
preoccupazione di essere protagonista “responsabile” piuttosto che vittima passiva del mercato.
Accettando l’idea di pagare un prezzo più alto per prodotto che conservino l’ambiente,
informandosi sulle condizioni sociali in cui gli articoli sono fabbricati. Questo nuovo genere di
consumatore si mette personalmente in gioco nel suo stile di consumo. La fase III favorisce la
“follia degli acquisti”, ma vede anche, in parallelo, un consumatore impegnato, “responsabile”,
per il quale l’atto di comprare non va scisso da un interrogativo etico e civico. Vogliono
consumare in modo diverso, non vogliono comprare per buttare. È giocoforza osservare che non
sono in alcun modo dei “de-consumatori”. Il loro scopo non è di uscire dall’universo
consumeristico e la prova sta nel fatto che consumano numerosi tipi di prodotti più della media
dei consumatori. Quello a cui tengono è consumare meglio, è questione di acquistare da soggetto
“intelligente” e non da consumatore-marionetta. Ne scaturisce che “l’alter consumatore” non è
che l’immagine di una delle tendenze dell’iperindividualismo contemporaneo, contraddistinto dal
sospetto nei confronti delle grandi istituzioni, dalla riflessività dei comportamenti individuali, dalla
ricerca qualitativa. Se, da una parte, la società degli iperconsumi spinge alla frenesia del sempre
di più, sempre nuovo da un’altra conduce le persone a rifiutare un consumismo sconsiderato,
formattato, influenzato. Gli “alter-consumatori” non osteggiano la società degli iperconsumi, ne
sono una delle manifestazioni esemplari poiché privilegiano la qualità di vita, sono desiderano di
sfuggire ai condizionamenti della pubblicità, si preoccupano di esercitare un controllo sulla propria
vita quotidiana emancipandosi dal conformismo di massa. Questa tendenza non costituisce in
alcun modo un accenno alla fine della fase III: accentuando l’individualizzazione delle spese,
diversificando il modo di consumare, obbligando le industrie ad aprire ulteriormente le loro
politiche alla segmentazione dei mercati, l’alter consumismo non fa che realizzare la vera essenza
della società degli iperconsumi.
Frugalità e felicità
Secondo i suoi oppositori, la globalizzazione liberale ha comportato un approfondimento
vertiginoso delle ineguaglianze fra paesi poveri e ricchi. La rottura con la società di crescita è
presentata come l’unica soluzione in grado di ristabilire un minimo di giustizia sociale. In secondo
luogo, la crescita forsennata è devastante per l’equilibrio mentale e della società, nella misura in
cui rende schiavi del denaro e delle merci, riduce l’importanza della vita sociale, atrofizza i beni
razionali. “Meno beni e più relazioni”, proclama chi, oggi, lancia un appello per uscire da sviluppo
economicismo. Tanto è legittimo che la legge proibisca certi consumi con una politica di
tassazione, tanto non accettabile l’idea che essa voglia ridefinire da cima a fonda la vita buona
nell’ambito dei bisogni umani. Volere realizzare la felicità delle persone malgrado loro può solo
comportare risultati sciagurati. “L’anti-sviluppo”, o la società della decrescita, appare come un
modello non solo irrealistico, ma anche non auspicabile. Se è vero che “più non significa meglio”,
non concludiamo che “meno” sia la soluzione ai nostri mali. La società degli iperconsumi ha molti
vizi, ma non tutti i vizi: prende l’uomo per quello che è, futile e contraddittorio, con tutte le sue
sfaccettature, i suoi desideri di distrazioni ed evasioni, certamente non nobili, che, tuttavia, fanno
parte della vita. È necessario correggere la società degli iperconsumi ma non fino al punto di

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rovesciarne l’economia leggera a vantaggio di un ascetismo razionale. L’inferno è lastricato di


buone intenzioni.

LA SAGGEZZA O L’ULTIMA ILLUSIONE


La felicità è il valore centrale, il grande ideale che la civiltà consumeristica celebra senza tregua.
Osservando il corso degli ultimi cinquant’anni è così possibile distinguere tre modelli o momenti,
che hanno plasmato l’immaginario sociale della felicità nel periodo dei consumi di massa:
A partire dagli anni 50, un modello di realizzazione di se stessi ha preso forma intorno a due
grandi poli: la vita materialista e la vita affettiva, le cose e il cuore. Ha consacrato una
“microutopia concreta”.
Nella scia degli anni della rivolta giovanile nasce una seconda mitologia: fa leva sull’esaltazione
della liberazione individuale, in antitesi con le norme del consumabile e la morale tradizionale.
Questo periodo, denunciando i falsi bisogni, dà priorità all’autenticità dell’Io e all’emancipazione
del corpo. È talmente associato ai vincoli familiari e borghese che perfino il termine “felicità” non
gode favore e gli si preferisce il godimento, la festa, il desiderio senza restrizioni. Ha consacrato
una “utopia trasgressiva e transpolitica”.
Con la fase III l’ideologia della felicità conosce un nuovo aggiornamento: alla divisione felicità
consumeristica/felicità amorosa si aggiunge la discriminazione che oppone la felicità materialista
a quella spirituale. Si vede il fiorire di nuove forme di religiosità, un interesse per le vie spirituali e
le tradizioni mistiche. È un cambiamento di paradigma, una new age che si contraddistingue per
la ricerca della “saggezza” o auto-perfezionamento spirituale. A differenza della concezione
materialista della felicità, queste ottiche spirituali sono incentrate sulla ricerca di equilibrio
interiore, approfondimento della consapevolezza. Non è tanto importante cambiare il mondo
quanto, invece, cambiare se stessi e risvegliare la consapevolezza di potenziali non sfruttati. La
saggezza che rappresentava un ideale obsoleto ora è tornata di nuovo protagonista. Nasce una
“microutopia psico-spirituale” che, proprio nel cuore della società degli iperconsumi, ridisegna la
mitologia della felicità individualistica.
La saggezza light
I “valori essenziali” sono esaltati, ma, in verità, sono il cambiamento, le mode, la curiosità
epidermica a orientare le nuove ricerche di significato. Ormai anche la saggezza funziona come
un “prodotto di salvezza a effetto immediato”. Focalizzata sull’immediatezza e sulla sfera emotiva,
oa nuova saggezza è una saggezza light, in perfetta sintonia con l’iperconsumatore esperienziale:
non abbiamo tanto a che fare con una rivoluzione spirituale quanto invece con una delle immagini
del consumo-mondo. Agli ideali di rinuncia al mondo sono subentrante le tecniche di self help che
si presuppone procurino immediatamente e contemporaneamente riuscita materiale e pace
interiore, fiducia in se stessi, potenza e serenità, vale a dire felicità interiore senza che ci sia
bisogno di rinunciare ad alcunché di esteriore (comfort, sesso, svaghi). L’individuo
iperconsumatore aspira ai vantaggi del mondo moderno, ma con l’aggiunta dell’armonia. La
saggezza si mescolava al non-attaccamento e alla rinuncia di se stessi: noi vogliamo la piena
realizzazione dell’Io. Non è tanto questione di cambiare stile di esistenza quanto invece di
adattarsi al nostro mondo vivendoci senza stress e ansia. L’obiettivo è di rendere l’esistenza
materialista più qualitativa e più equilibrata. Siamo giunti all’ora dell’immaginario del comfort
integrale, materiale, emotivo, “consumatore” e psicologico. Ciò che si perpetua sotto l’etichetta
delle antiche saggezze è la ricerca individualistica della felicità mondana. Non un cambiamento di
paradigma, ma la dinamica di pluralizzazione delle mitologie della felicità individualista.
Illusione della saggezza
Mentre la ricerca di beni materiali genera insoddisfazioni e frustrazioni, l’avventura psico-spirituali
procura una piena realizzazione ricca di significato e di armonia con se stessi sia con il cosmo.
Impariamo ad amarci, modifichiamo i nostri pensieri. Il nuovo paradigma si struttura secondo lo
schema sillogistico seguente: ciò che ci capita è lo specchio del nostro atteggiamento interiore;
dunque, noi possiamo cambiare e dominare la nostra consapevolezza; dunque la felicità ci
appartiene, si impara, è tutta nelle nostre mani. Possiamo essere felici tanto quanto decidiamo di
esserlo: questo è il credo instancabile reiterato dai maestri della spiritualità e dello sviluppo
personale. Ne consegue che, sotto le sembianze di un psicologismo trionfante, è il pensarlo
magico bello e buono che il suo ritorno nell’universo contemporaneo. L’iperconsumatore è
diventato qualcuno che chiede neo-magia, rimedi-miracolo, fondati sull’onnipotenza della
consapevolezza, formule e rituali incantatori che garantiscono che la felicità è cosa che dipende
da noi. Se c’è una cosa che l’esperienza di vita insegna è che non siamo in grado di
padroneggiare la felicità. Malgrado questo nuovo stato di grazia della spiritualità rispecchi nuove
aspirazioni, resta comunque un veicolo di una sorta di cecità che può sconfinare
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nell’oscurantismo. Rousseau ha messo in evidenza i dilemmi irrisolvibili della questione della


felicità. Incompleto, incapace di bastare a se stesso, l’essere umano ha bisogno del prossimo per
conoscere la felicità, ma, proprio perché esse è inscindibile dal rapporto con gli altri, l’individuo è
inevitabilmente condannato alle delusione e alle ferite della vita. Dovendo io dipendere dagli altri
per essere pienamente felice, a mia felicità è necessariamente fuggevole e precaria. Senza gli altri
sono niente, con gli altri sono alla loro mercé: la felicità alla quale l’uomo può accedere può solo
essere una “felicità fragile”. Visto che non possiamo essere felici da soli, non siamo padroni della
felicità. L’influenza degli altri sulla nostra felicità è forte. È nascondere a livello profondo, ciò che,
con il nome di inconscio, stabilisce l’impossibilità di un pieno e completo possesso di se stessi da
parte di se stessi. L’uomo non è signore e padrone di se stesso. Anche se è vero che molte
soddisfazioni dipendono da noi, gli alti e bassi del piacere, le nostre gioie profonde e la felicità di
vivere non sono cose di cui possiamo disporre a piacere: non le governiamo, sono sensazioni che
vanno e vengono, senza di noi. La felicità si incontra, non è ai nostri ordini. È così che la fede nella
possibilità di padroneggiare la nostra felicità risuona come una delle nostre ultime illusioni,
un’illusione alla quale l’uomo, probabilmente, non rinuncerà mai del tutto. C’è qualcosa di
inconscio nella felicità: viene quando vuole e non quando voglio. Mentre il dominio tecnico-
scientifico del mondo continua, l’impotenza a governare la felicità permane.L’uomo profetico
continua ad assomigliare a un nano accovacciato sulle spalle di un gigante: dobbiamo vivere con
la consapevolezza che la felicità è l’indomito, sfuggente, imprevedibile, irrisolvibile enigma di oggi
e forse di domani.

ETICA ED ESTETICA: UNA NUOVA BARBARIE?


Mentre si indebolisce l’autorità simbolica della vita intellettuale, le industrie dei programmi
prosperano, i parchi di divertimenti a tema e i giochi risucchiano le masse, il tempo trascorso
davanti alla tv aumenta: la gloriosa età della cultura è scomparsa a vantaggio dell’impero
dell’entertainment. In tempi ancora recenti, artisti e uomini di lettere avevano l’ambizione di creare
opere immortali; oggi quello che conta è essere “conosciuti”, apparire nei media, vendere molti
prodotti con una durata limitata di vita. La cultura classica si prefiggeva il compito di elevare
uomo, le industrie culturali si impegnano a distrarlo. Il “valore-mente” di Valery è stato sostituto
dal “valore-animazione”. Di fronte ai danni provocati dal consumo-mondo, numeri intellettuali
stigmatizza la nascita di una nuova “barbarie”, un nichilismo distruttore di ciò che costituiva
l’umanità dell’uomo. Alcuni parlano di una de-simbolizzazione generalizzata, caratterizzata da un
nichilismo che ridurrebbe l’uomo a un individuo calcolatore, che non tiene in alcuna
considerazione i valori e gli ideali, esclusivamente motivato dal denaro e dai suoi stessi interessi.
La società degli iperconsumi e la barbarie intellettuale, morale ed estetica sono un tutt’uno. Il
culto dell’efficienza e del denaro ha incontestabilmente spodestato l’antico prestigio del pensiero
meditante, il principio del gestibile ha sostituito quello del durevole; l’atteggiamento
consumeristico conquista ambiti che nel passato erano permeati di venerazione. Tuttavia,
abbiamo il diritto di venire lo stadio ipercommerciale come un universo decadente, ri-
barbarizzato.
Barbarie estetica?
La nostra epoca è testimone di un’ondata di immagini volgari e pornografiche e analogamente, di
una moltitudine di happening e performance che elevano a loro realizzazione perfetta il “fai
qualunque cosa ti pare”. Ovunque, le strade commerciali, i luoghi turistici, offrono gli stessi articoli
kitsch, gli stessi gioielli, le stesse statuette etniche. Contemporaneamente, l’atteggiamento che si
può chiamare estetico è stato soppiantato da un consumo di immagini continuamente rinnovate,
meno osservate di quanto non siano inghiottite con grande rapidità. Per quanto questi fenomeni
siano reali, non rappresenta nella sua interezza il rapporto contemporaneo degli individui con le
esperienze estetiche. È sempre più un’estetica del consumo a gestire le attività del tempo libero.
L’universo iperindividualistico è caratterizzato più dalla democratizzazione delle esperienze
estetiche di quanto lo sia da una meschina e scarsa sensibilità al bello. La verità è che la società
degli imperconsumi ha arricchito le capacità estetiche della gente, allargato l’orizzonte dello
sguardo, ha accresciuto la sensibilità al bello al di fuori di qualunque prospettiva utilitaristica. La
fase III è coeva a un consumo estetico di massa, a una maggiore domanda di arte e bellezza. Più
l’efficienza tecno-commerciale governa il mondo, più l’offerta è estetizzate e più la domanda è
contraddistinta dal desiderio di assaporare le gioie delle impressioni inutili.
Barbarie morale?
Sono innumerevoli le voci che si levano contro la fine di una civiltà in cui si scatenano l’egoismo
del “ciascuno per sé”, il dio denaro, la delinquenza, la grande criminalità economica e finanziaria.
Questi fenomeno sono difficilmente contestabili. Tuttavia, c’è un lato che impedisce di assimilare
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unilateralmente l’iperindividualismo a un processo di decadenza. Al contempo, raggiungono


l’apice gli slanci di solidarietà nei confronti dei diseredati, i contributi per le vittime di malattie o di
catastrofi. La società degli iperconsumi non è riuscita a distruggere del tutto il valore dei principi
morali. L’entusiasmo politico è svanito, non i sentimenti orali. La maggior parte delle persone ha
convinzioni morali che si traducono sia in reazioni di indignazione sia in diversi tipi di
comportamenti responsabili o altruisti. C’è una nuova regolazione sociale dell’etica, compatibile
con l’individuo ipermoderno. Gli ideali di Bene e di Giusto sono tutt’altro che defunti: anche se
non costruiscono un mondo a loro immagine, permettono, di giudicare, criticare e correggere certi
eccessi. La verità è che la nostra epoca non è tanto testimone dello svilimento di tutti i valori,
quanto di una reviviscenza degli interrogativi morali legati al regresso dell’influenza del politico e
dei grandi sistemi di significato. Da una parte si affievolisce il potere della democrazia su se
stessa, da un’altra, si giunge al compimento della volontà della società e degli individui di
prendere in mano le regole su cui si fondano le loro azioni. Non “morte dei valori” bensì crollo di
regole morali. La società iper individualistica non si riduce al culto ossessivo dei piaceri privati: è
anche quella dove spetta all’individuo decidersi su ciò che deve fare, inventando le regole del suo
comportamento. La cultura della fase III non può essere equiparata a uno stato di barbarie
nichilista.

SPIRITO CONSUMISTICO: FINO A CHE PUNTO?


Si dice che la società d’iperconsumo abbia vinto: non smetterà più di espandere il suo impero
devastatore, diffondendo fra la gente conformismo generalizzato, pigrizia della mente, mancanza
di cultura, superficialità e incoerenza. Finiti i significati e gli alti ideali: i soli scopi in cui si
riconoscono le persone sono la spesa futile, il benessere e la salute. Di fronte a questa
modificazione, certuni parlano di uno stato di “dopo-cultura”, altri, evocano un’immensa crisi dei
significati, una fase di disgregazione che priva gli individui di norme, di valori e di motivazioni
necessarie al funzionamento della società. Altri ancora sottolineano l’ingresso in una “post-
storia”, che conce con un’umanità “ri-animalizzata e infantilizzata”: è caduto in stato di
abbandono tutto quello che costituiva l’uomo come tale, il lavoro, la lotta contro la morte, il
conflitto la contraddizione. Il catastrofismo è la cosa meglio condivisa del mondo. Queste letture
mi sembrano inaccettabili perché si dimostrano cieche alle forze antagoniste che operano nel
presente. Non ci sono molti dubbi sul fatto che la società degli iperconsumi comincia con una
crisi della cultura, della scuola e della politica. Esistono però alcune dinamiche contrarie che
autorizzano a rifiutare le radiografie unilaterali predilette dalla classe intellettuale e che rendono
inintelligibile la forza di auto correzione delle società individualiste. La celebrazione dei godimenti
soggetti è una tendenza dominante della nostra epoca, ma ce n’è un’altra che spinge in tutt’altra
direzione. Cresce la preoccupazione per un’istruzione che prepari al futuro proprio in ragione di
un’epoca dominata dall’incertezza e dal rischio. Siamo di fronte ai limite e alle contraddizioni
dell’edonismo a tutto campo. L’edonismo liberale è incapace di fornire i fondamenti e i contesti di
un sistema d’istruzione che sia degno di questo nome. L’essere inghiottiti dall’universo edonista e
mediatico è equiparato all’impoverimento di se stessi, a un’esistenza senza interiorità,
all’annientamento del soggetto nella sua veste di essere riflessivo e perfettibile. Nonostante tutte
le incitazioni alla felicità, ò’ambito consumeristico è legittimo nella misura in cui non costituisce un
ostacolo all’autonomia riflessiva degli individui, all’esigenza di formazione e perfezionamento dei
soggetti. Non è vero che il principio del piacere sia diventato la misura di tutto, l’alfa e l’omega
della vita. È sbagliato affermare che la fase III sia riuscita a plasmare individui che non aspirino più
ad alcunché se non a divertirsi e invecchiare in forma. Il sistema di riferimento edonistico e
medicale può essere dominante ma non è esclusivo. Cercare, costruire, intraprendere, superare
se stessi sono ancora valori che continuano ad orientare le esistenze. Non è solo il “grado di
mobilità” delle persone a stabilire le nuove differenziazioni sociali, ma anche il modo di relazionarsi
con il lavoro, con i godimenti dei consumi e gli scopi della vita. Per la prima volta, la “classe degli
svaghi” non è più al vertice della piramide sociale: d’ora in poi, più la posizione gerarchica è alta
più si lavora e meno il consumo rappresenta il principio conduttore della vita. Nonostante la
società degli iperconsumi consacri gli svaghi, la distensione e la facilità, non ha in alcun modo
posto fine alla predisposizione umana a creare, dominare, superare se stessi. La società del
benessere completo è anche quella in cui si moltiplicano le passioni per la conquista e il rischio. È
palese che in consumi non siano la motivazione primaria dei grandi uomini d’affari: lavorano come
pazzi, trascurando i piaceri al fine di soddisfare la loro sete di dominio. La fase III è teatro del
successo della mitologia dell’avventura, dei rischi e delle prodezze (Es. Scalate, trekking). La
società dei godimenti non ha in alcun modo cancellato le motivazioni a spingersi ai limiti di se
stessi e delle proprie forze, ad affrontare rischi e pericolo: ha contribuito a trasformare il rischio in

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cimento personale e scelta, indipendentemente da qualunque cultura di classe. Tutto indica che
l’età del benessere emotivo prepara l’espansione sociale di queste passioni più di quanto
favorisca il suo inaridimento.
Arcaismi?
Nonostante il capitalismo dell’iperconsumo abbia sconvolto il rapporto con se stessi, con gli altri
e con la cultura, non è riuscito a generare una umanità post-storica: seppur siano distribuite in
modo ineguale tra le persone e si presentino sotto forme completamente nuove, permangono le
volontà di conoscere, capire, progredire. A dispetto della potenza del consumerismo domani sarà
la stessa cosa e a sostegno di questa tesi mi limito a sottolineare due ragioni:
Le scienza rappresentano discipline esemplari di formazione intellettuale, un appello incassate a
capire, provare, progredire lungo la strada della verità. La scienza è inseparabile da una dinamica
di trascendenza che è sempre aperta e sempre s’interroga: irresistibilmente, cerca le
problematiche, rilancia gli interrogativi e stimola lo spirito critico. Rappresenta, in questo modo,
una delle grandi forze del futuro che impedirà alla cultura di essere completamente fagocitata dal
regno dello spettacolo e dell’agio consumeristico. Secondariamente, è poco probabile che i
godimenti del benessere possano costituire la sola esigenza degli individui, la sola strada per la
realizzazione personale. Intraprendere, rischiare, scoprire, inventare, creare, resteranno per molte
persone i mezzi insostituibili per affermarsi, guadagnare la stima in se stessi e quella degli altri.
Per queste persone, l’identità individuale e la valorizzazione di sé continueranno a essere cercate
attraverso ciò che esige lavoro, sforzo, ricerca di superarsi, vale a dire al di là del principio del
piacere “consumatore”. Se una tendenza dell’iperindividualismo conduce a richieste di ricreazione
e di conservazione di stessi, un’altra incoraggia la costruzione meritocratica e l’espansione di sé
stessi. La verità è che la società degli iperconsumi non può esistere se la sua tendenza dominante
non si trova contrastata da principi antagonisti. Ciò che ostacola le norme degli iperconsumi deve
essere posto come il requisito del loro sviluppo. La verità è che solo interessi e passioni di un altro
genere potranno erigere dei bastoni contro lo scatenamento dell’iperconsumatività personale. On
dobbiamo tanto demonizzare l’epidemia consumeristica quanto invece cercare i mezzi che
spingerebbero le persone a orientarsi verso scopi più vari. L’esigenza del futuro sta nell’inventare
nuovi modi di istruzione e di lavoro che permettano agli individui di trovare un’identità e delle
soddisfazioni altrove, non nei paradisi passeggeri dei consumi.

DOPO L’IPERCONSUMO
Non c’è una soluzione che consenta di sostituire la fase III. Con il capitalismo dei consumi,
l’edonismo si è imposto come un valore supremo e le soddisfazioni commerciali come la corsia
preferenziale della felicità. Fintantoché la cultura della vita quotidiana sarà dominata da questo
sistema di riferimento, salvo che si verifichi un cataclisma, la società degli iperconsumi continuerà
la sua corse senza freni. Nel momento cui nasceranno nuovi modi di valutare i godimenti materiali
e i piaceri immediati, in cui s’imporrà un altro modo di concepire i sistemi d’istruzione, la società
degli iperconsumi lascerà il posto a un altro tipo di cultura. Quando la felicità sarà meno
identificata con la soddisfazione dei bisogni, allora il ciclo dell’iperconsumo sarà chiuso. Verrà un
giorno in cui la ricerca della felicità nei consumi non avrà già lo stesso potere di attrazione, la
stessa positività: la ricerca della realizzazione di sé finirà per distaccarsi dalla corsa senza fine ai
piaceri consumatori. L’ora non è suonata ma quel momento arriverà. Un capovolgimento della
gerarchia dei valori che non annuncerebbe il regno del Superuomo ma, in modo definito, quello
delle democrazie post consumeriste, in cui l’edonismo non rappresenterebbe più il principio
portante o strutturante della vita. In quel momento, acquistare e rinnovare le merci non sarà più
considerato la corsia preferenziale verso la felicità. Homo Consomator non sarà estinto, perderà
solamente il suo immaginario opulento e la sua centralità trionfante. Per gli antropologi del futuro
saremo visti come un Homo Sapiens che venerava un Dio irrisorio e affascinate: la merce.

L’ECLETTISMO DELLA FELICITÀ


La filosofia degli antichi cercava di formare un uomo saggio che rimanesse identico a se stesso,
che volesse sempre la stessa cosa, coerente con se stesso e con il rifiuto del superfluo. È
possibile? No. L’uomo cambia nel corso della sua vita e non ci aspettiamo sempre le stesse
soddisfazioni dall’esistenza. Vale a dire che egli non saprebbe adottare una filosofia della felicità
che non fosse disomogenea e pluralista: una filosofia meno scettica di quanto sia eclettica, meno
definita di quanto sia mutevole. Nel quadro di una problematica sfaccettata non è tanto l
consumerismo stesso che deve essere denunciato quanto la sua crescite smisurata che
costituisce un ostacolo allo sviluppo delle potenzialità umane. Ne consegue che la società iper-
commerciale è meno da mettere alla gogna di quanto sia invece da correggere e inquadrare. Non
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tutto deve essere rifiutato, molto deve essere rivisitato e riequilibrato al fine che l’ambito
tentacolare dell’iperconsumo non oscuri la molteplicità degli orizzonti della vita.In questo campo “i
giochi non sono fatti”, tutto è da inventare e da costruire senza un modello garantito. La conquista
della felicità non può avere scadenze. Ciò che è vero per la società lo è anche per l’individuo:
l’uomo cammina verso un orizzonte che si dissolve man mano che crede di avvicinarlo, poiché
qualunque soluzione porta con sé nuovi dilemmi. Ogni volta la felicità è da re-inventare e nessuno
possiede le chiavi che aprano le porte della Terra promessa: sappiamo solo navigare a vista e
corregge la rotta di volta in volta, con maggiore o minore successo. Lottiamo per una società e
una vita migliore, cerchiamo instancabilmente le strade che conducono alla felicità ma come
possiamo ignorare che ciò che abbiamo di più prezioso, la gioia di vivere, ci sarà sempre regalata
in più.

PER STUDIARE:
-Rileggere e fare chiarezza Capitolo 11
-Integrare con appunti presi in classe
-Organizzare discorso per esame orale
-Integrare in penna alcuni punti
-Evoluzione di tutti Homo..

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